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Una sintesi (im)possibile?

Uri Dotan, Hummingbird, immagine digitale di sintesiIl recente vivace dibattito tra federazioni di associazioni, associazioni, comitati e genitori di persone con disabilità gravissima ha fatto emergere una pluralità di posizioni, a prima vista sorprendente, su alcuni argomenti chiave dell’assistenza ai cosiddetti “gravissimi”: prepensionamento, servizi domiciliari, contributi economici.
Rileggendo le dichiarazioni complete apparse qua e là (e non i soli “titoli di testa”, talvolta fuorvianti e nemmeno solo alcuni stralci delle dichiarazioni stesse), si evidenzia, a nostro modesto ma “tecnico e interessato parere”, la necessità di operare una possibile sintesi tra le varie opinioni.
Chiaramente il momento politico propenso ad ogni promessa pur di raccogliere voti non contribuisce alla serietà dell’analisi degli effettivi bisogni della persona con disabilità gravissima che vive in famiglia e della famiglia stessa.

Partiamo dunque da un’esatta definizione dei termini che usiamo, definizione di per sé ardua perché necessita di una sintesi tra l’aspetto giuridico, quello clinico e quello “pratico terra-terra” (il più importante di tutti).
Tralasciamo dunque i riferimenti normativi e quelli clinici (richiamati mille volte un po’ da tutti i “contendenti” e che comunque sono certo che qualcun altro vorrà meglio spiegare) e affrontiamo la questione reale.
Come identificare la persona con disabilità gravissima con la maggior precisione possibile, in modo da individuare i casi “realmente gravissimi” e quindi limitarne il numero, con conseguente sostenibilità dei costi delle (notevoli) prestazioni richieste? È un discorso cattivo? È proprio necessario tagliare con il coltello tra “quasi grave”, grave e gravissimo? Non innescheremo la solita “guerra tra poveri”, con il consueto risultato di bloccare tutto?
Sono obiezioni ragionevoli, ma a mio avviso da superare con meno traumi possibili.

Pensiamo dunque che la persona con disabilità gravissima sia quella che per continuare a vivere e a vivere nel migliore dei modi possibili (un unico inciso giuridico: rileggiamoci attentamente la nostra Costituzione!) necessiti davvero di un’assistenza continuativa 24 ore su 24, a volte prestata anche da più persone contemporaneamente e che l’interruzione anche per un periodo molto breve della continuità dell’assistenza comporti un reale pericolo di morte o di gravi ulteriori complicanze.
Ne consegue quindi che alcune delle persone considerate o classificate in situazione di gravità – che usufruiscono dell’indennità di accompagnamento – non rientrano a nostro giudizio tra quelle sopramenzionate. Ma ne consegue anche che è necessario mutare l’immagine della persona con disabilità gravissima: in genere per il “pubblico esterno” e per gli organi d’informazione la persona con disabilità gravissima viene connessa quasi sempre ad un’immagine di macchinari complessi continuamente in funzione, di stato vegetativo o quasi.
Esistono invece, fortunatamente, persone con disabilità gravissima che, con costi familiari altissimi, conducono un’esistenza per certi aspetti banalmente normale: vanno a scuola, fanno vita di relazione, vanno persino in vacanza!
Paradossalmente – ma non tanto, a pensarci bene – ne deriva anche che la persona con disabilità gravissima può vivere solo in famiglia! Infatti nessuna struttura ospedaliera o residenziale è in grado di assicurare davvero un’assistenza continua 24 ore su 24 sine die (e spero che nessuno proporrà ai nostri ragazzi di vivere in un reparto di rianimazione di un ospedale bene organizzato e bene amministrato. E se poi qualcuno lo proporrà davvero, saprà quante migliaia di euro al giorno costerà tale “ospitalità”?).

Madre con il suo bimbo disabileIdentificata dunque la persona che secondo noi è quella con disabilità gravissima, torniamo alla sospirata sintesi tra servizi e aiuti economici, il tutto pensato nella variegata realtà italiana odierna, cioè grandi aree metropolitane, centri di dimensioni intermedie, piccoli Comuni: è chiaramente impossibile adottare un provvedimento “uguale per tutti”, se non nel senso che preveda l’opportunità, non priva di qualche rischio, di optare tra scelte possibili.
Ove esistente e funzionante, sarebbe preferibile optare per la fornitura di un servizio adeguato, consistente in personale ben formato, psicologicamente e fisicamente idoneo, servizio che abbia una durata congrua alla reale gravità del caso: se le 24 ore su 24 restano casi veramente limite, le 12 ore al giorno dovrebbero poter essere possibili, le 8 ore il limite minimo.
La formula ove esistente e funzionante comporta per altro almeno due precisazioni: la prima è che il servizio viene generalmente fornito tramite cooperative, le quali hanno spesso difficoltà a reperire personale con le caratteristiche indispensabili e che la formazione del personale stesso risponde talvolta più alla forma che alla sostanza dell’impegno assistenziale richiesto. Anche lo stipendio effettivamente percepito dall’operatore (circa la metà di quanto fattura la cooperativa, per via dei costi contributivi, di organizzazione e altro) non invoglia certo aspiranti con formazione già acquisita.
Seconda precisazione: “dove i servizi non esistono” o non funzionano, è inutile, a parer nostro, pensare di crearli ex novo e di poterli davvero utilizzare proficuamente in tempi brevi (e se i tempi non sono brevi davvero, chi sopravvive?).

Ecco quindi la tentata sintesi finale, che poi è la nostra proposta da sempre:
privilegiare la fornitura di servizi di qualità, coprogettati con la famiglia e da questa valutati, efficaci, di assicurata continuità (festivi compresi, con personale sostituibile per malattia, congedi ecc., senza danno per l’assistito), per un numero di ore al giorno in relazione alla necessità dei singoli casi;
– ove tale servizio non sia effettivamente assicurabile con le modalità previste, trasformare il costo del servizio mancante in un’adeguata contribuzione economica diretta alla famiglia (vedere, ad esempio, articoli recenti su cosa si fa in Svizzera, di cui anche questo sito si è occupato: contribuzione pari alla metà del costo reale del servizio non reso).
Discutibili, poi, i “paletti” da imporre o meno all’uso di questa contribuzione in danaro.
In ambedue i casi, infine, prevedere adeguati sgravi fiscali che compensino almeno parzialmente gli oneri che restano a carico della famiglia. E non sono pochi! 

*Federazione Italiana ABC (Associazione Bambini Cerebrolesi).

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