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83 milioni di disabili cinesi, ancora troppo «invisibili»

Bimbo cinese con disabilitàQuando Gao Ya Li ha aperto una delle prime scuole per bambini con paralisi cerebrale infantile a Shanghai, in Cina, i suoi vicini erano sconcertati. «Perché diavolo vuoi aprire una scuola per i can fei (gli “inutili”)?», le chiedevano.
Jun, l’unico figlio di Gao, è nato con una paralisi cerebrale e subito dopo il parto, il padre aveva lasciato la moglie e il figlio. Ogni  medico cui Gao si era rivolta le aveva prescritto una lunga lista di medicine e di costose terapie di agopuntura, per aiutarla a “curare” il figlio. Solo dopo anni di trattamenti inefficaci, Gao è giunta alla conclusione che nessuno di questi dottori ne sapesse davvero qualcosa sulla condizione di Jun.
Gao ha perciò attraversato la Cina in lungo e in largo, cercando aiuto, viaggiando da Pechino a Changchun nel Nord-Est, sino a Nanchino e Wuhan, realizzando però, dopo anni di ricerche, che in Cina non avrebbe mai trovato ciò di cui aveva bisogno. E così Gao ha aperto una propria scuola.

Nel suo pellegrinaggio emergono in piena luce le battaglie che le persone con disabilità ancora si trovano a fronteggiare in Cina.
Negli anni Novanta, il Governo cinese aveva approvato una serie di leggi per dare risposte a queste criticità, la più importante delle quali – la Legge sulla Tutela delle Persone con Disabilità del 1990 – intendeva per la prima volta garantire giuridicamente il diritto all’assistenza, alla salute e al lavoro di questi cittadini.
Nel giugno di quest’anno, poi, la Cina ha ratificato anche la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, approvando nel mese di luglio successivo una legge per garantire ad ogni cittadino con disabilità «accesso ai servizi di riabilitazione entro il 2015».
Si tratta di provvedimenti molto attesi in una società che ha, storicamente, assai “poco tempo” per occuparsi delle persone con disabilità. E tuttavia la persistenza di una serie di atteggiamenti negativi ha limitato l’impatto di queste leggi dello Stato.
Terminologie offensive come can fei (“inutili”) sono ad esempio ancora molto diffuse, ma senza dubbio il dato che riflette di più lo stato della popolazione con disabilità in Cina è quello riferito alla loro “invisibilità”.

«La cosa più difficile, ovviamente, è uscire di casa e andare in strada», sostiene Pilar Tan, una commerciante di Shanghai che ha adottato un bambino con paralisi cerebrale della provincia di Shaanxi. «Quando mio figlio è arrivato a Shanghai – aggiunge – le persone per strada si fermavano a guardarlo come se arrivasse da un circo! Si sforzavano anzi di passargli il più vicino possibile per avere una vista migliore, senza preoccuparsi nemmeno di quello che io, come madre, potessi pensare. Sono arrivata ad urlare alle persone di guardare da un’altra parte».
Bimba cinese con disabilità insieme ad una parente adultaPilar ha iscritto il figlio alla scuola di Gao, dove studia con altri 45 bambini con disabilità intellettiva. La scuola di Gao è difficile da scovare, nascosta com’è a Gubei, agli estremi confini occidentali della città di Shanghai e letteralmente annidata in un labirinto di palazzi.
Quando l’istituto ha aperto i battenti, nel 1996, è stato tra le prime scuole speciali private di Shanghai, città di molti milioni di abitanti, con una popolazione disabile assai numerosa. In tempi più recenti, poi, le istituzioni locali si sono sforzate di favorire l’accesso all’istruzione dei ragazzi con disabilità, istituendo in ogni distretto le cosiddette “Case dell’Allegria” per bambini con bisogni speciali.

«Prima c’era così tanta ignoranza!», commenta Gao. «Non esisteva proprio la concezione di miglioramento. Se eri nato con una disabilità, non avevi alcuna speranza. La Cina ha sempre avuto un enorme numero di cittadini con disabilità, ma nessuno ha mai prestato loro attenzione».
La stessa Gao ha incontrato moltissime resistenze quando ha scelto di aprire la propria scuola. «Nel momento in cui ho acquistato dei condizionatori d’aria – racconta infatti – i miei vicini mi hanno schernito, con frasi come “hai la sfacciataggine di sprecare energia per questo tipo di persone?”. C’erano molti sospetti, all’interno della comunità, riguardo a quello che stavo facendo, ma a poco a poco i genitori hanno cominciato a prestare attenzione».

Un recente studio sulla qualità della vita delle persone con disabilità di Shanghai – condotto dalla locale Università Fudan – ha riscontrato che la maggiore preoccupazione delle persone coinvolte era rappresentata da un ambiente di lavoro poco favorevole. Il 65% degli intervistati, infatti, in tre diversi distretti della città, ha dichiarato di essere scontento degli atteggiamenti incontrati sul posto di lavoro.
Il 30% degli intervistati ha dichiarato inoltre di non aver notato nel corso degli ultimi cinque anni alcun miglioramento nelle loro vita, rispetto all’inclusione sociale e lavorativa. Per il 20% le cose tendevano anzi ad andare peggio; il rimanente 50%, invece, ha parlato di qualche miglioramento per lo meno in alcuni settori. La mancanza di opportunità lavorative resta comunque la maggiore preoccupazione. Ancora più negativa, poi, è la situazione nelle zone rurali della Cina, anche perché bisogna considerare che Shanghai è ritenuta una delle città cinesi più avanzate per la qualità della vita delle persone con disabilità.
E così, nonostante il governo cinese abbia istituito un sistema di incentivi fiscali per i datori di lavoro che assumono persone con disabilità, l’opinione generale è che non si sia affatto verificato un aumento degli inserimenti lavorativi.

«Le riduzioni delle tasse – conferma Gao – non hanno davvero fatto alcuna differenza nelle assunzioni. La maggior parte delle aziende, infatti, preferisce pagare più tasse che non assumere una persona con disabilità».
Dal canto loro, i dirigenti delle imprese locali, se intervistati dichiarano di essere felici di pagare i salari ai lavoratori con disabilità che hanno sul loro libro paga, ma che li scoraggiano a farsi notare in giro, in quanto temono che la loro vista possa avere un impatto negativo sull’ambiente di lavoro.
Mendicante cinese con disabilitàJi Meibin, preside di una scuola speciale governativa istituita a Shanghai, conferma che «solo pochi dei suoi 2.000 studenti avranno un lavoro “da colletto bianco”. Alcuni verranno assunti nei supermarket di quartiere, ma la maggior parte dei diplomati rimarranno senza occupazione».
E tuttavia, in quanto capo di una scuola governativa, Ji è riluttante ad esprimere un parere su come abbiano realmente funzionato le politiche del governo cinese, in ambito di lavoro delle persone con disabilità. «È un fatto – afferma – che il governo fornisce un contributo di 400 yuan al mese [circa 58 dollari, N.d.R.] in sussidi e in indennità sanitarie e inoltre frequentare le nostre scuole è gratuito. Le norme sono più che sufficienti».

La scuola di Ji ha sviluppato un sistema davvero singolare per consentire ad alcuni alunni di guadagnarsi dei soldi mentre sono in classe. La scuola stessa, infatti, ha un accordo con un produttore di sapone di Shanghai, che fa lavorare i bimbi per un’ora al giorno, tra una lezione e l’altra, nell’imballaggio dei prodotti.
Per la signora Gao, invece, soluzioni del genere non sfiorano nemmeno il cuore del problema, vale a dire la scarsa visibilità nella società delle persone con disabilità ed è per questo motivo che i recenti Giochi Paralimpici sono stati visti con così tanto ottimismo dai sostenitori dei diritti delle persone con disabilità cinesi, i quali ritengono che possano avere avuto il potere di lasciare un marchio durevole nella società cinese.
Gli eventi sportivi paralimpici di Pechino sono stati tutti seguiti con grande partecipazione negli stadi, andando ben oltre le aspettative; le stesse reti della televisione di Stato hanno trasmesso ogni evento.
Un'immagine della cerimonia di apetura delle recenti Paralimpiadi di Pechino«Non c’è dubbio – secondo Gao – che la gente sia stata incoraggiata a notare quanto valgano gli atleti con disabilità. Si tratta sicuramente di un buon inizio, ma ovviamente serviranno molte altre opportunità per far sì che le persone con disabilità partecipino davvero alla vita della società».
In tal senso, la prima raccomandazione di Gao ai genitori che iscrivono i loro figli nella sua scuola è quella di uscire il più possibile insieme a loro. «Dico loro: portate i vostri figli al parco, nei negozi, ovunque sia possibile, anche se questo comporta delle difficoltà, perché vederci nei luoghi della vita comune è l’unico modo con cui si porteranno le persone del nostro Paese a cambiare il loro atteggiamento nei confronti delle persone con disabilità».

È un reportage, questo, molto significativo, ma al tempo stesso un po’ particolare, in quanto proviene da un Paese che dal punto di vista dei diritti umani va certamente considerato “in via di sviluppo”, come l’India, ove si parla di una realtà – come quella cinese – di uno Stato che vive situazioni non molto diverse. Fa infatti riflettere vedere come l’opinionista Krishnan non faccia letteralmente una piega nel parlare di scuole speciali, di istituti con duemila (!) studenti disabili o addirittura di lavoro minorile in classe.
E in ogni caso l’importanza della testimonianza resta, per far ben capire come nessuna legge sia purtroppo riuscita a scalfire concretamente lo stigma nei confronti di milioni di persone con disabilità in Cina, considerate ancora sin troppo spesso come
can fei (“inutili”), per usare proprio una parola appartenente al linguaggio del grande Paese asiatico. (Giuliano Giovinazzo)

*Testo apparso nell’edizione online di «The Hindu», rivista indiana nazionale e qui ripreso per gentile concessione. Traduzione e adattamento a cura di Giuliano Giovinazzo.

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