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Un disabile «normale», non discriminato

La nuotatrice sudafricana natalie Du Toit, sedicesima alle Olimpiadi di Pechino nella dieci chilometri di nuoto di fondoCongenitamente disabile e anche volontario di Emergency, scrivo a questa testata dopo aver letto l’intervento di Pietro Barbieri, presidente della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), intitolato Davanti al mendicante o a Batman, vogliamo comunicare di noi stessi [tale testo è disponibile cliccando qui, N.d.R.].
Lo faccio riflettendo su alcuni eventi di qualche tempo fa – tutti in ambito sportivo – a incominciare dalla tanto chiacchierata ammissione alle Olimpiadi di Oscar Pistorius, l’atleta sudafricano disabile con amputazione bilaterale degli arti inferiori che si avvale di protesi al carbonio il quale, dopo una non breve diatriba legale, non ha potuto essere a Pechino, per non aver superato la tempistica cronometrica richiesta; ma penso anche al piazzamento al sedicesimo posto nella dieci chilometri di nuoto di fondo della nuotatrice amputata a una gamba, Natalie Du Toit – anche lei del Sudafrica, nazione di cui è stata la portabandiera a Pechino – o al flebile e caritatevole interesse degli organi d’informazione per le Paralimpiadi.

Di fronte a tutto ciò vorrei innanzitutto che mi si chiarisse un dubbio. Ho la sensazione, infatti, una sensazione vissuta, che la “categoria” delle persone con disabilità (e chiedo venia per tale classificazione) sia alla continua ricerca di una propria identità, che sembra avere smarrito o che intenda trasformare.
Le vite, le azioni e le vicende di persone con disabilità, narrate e rappresentate dalle TV generaliste e dai media, si incentrano quasi sempre (malauguratamente se vittime di episodi di cronaca nera) su chi rappresenta una “specificità nella disabilità”, come a dimostrare la propria “eccezionalità” nella disabilità stessa.
La continua e sola rappresentazione di limiti estremi ad opera di sportivi disabili, di specificità di artisti disabili e altro ancora – sempre all’insegna dell’altisonante – da una parte certamente mi conforta e mi suscita grande e profonda ammirazione per tutte le capacità che queste persone riescono a mettere in gioco. Vorrei però far notare che, nella grande rappresentazione della realtà sociale, la persona con disabilità non deve mostrare le proprie incapacità per avvalorare ed esaltare le capacità eventualmente raggiunte. Senza voler sottacere o nascondere alcunché, mi sembra infatti che sia dignitoso mostrare la persona con disabilità in tutto il suo essere umano, prescindendo dall’estremizzazione del suo carattere e dei suoi limiti.
Che l’handicap, ossia “l’ineguaglianza delle prestazioni”, derivante da menomazioni o patologie a carico di una persona sia in realtà commisurato fortunatamente non più e non solo alla valenza di questa menomazione o disturbo, bensì al fatto che la persona viva, operi e lavori in un ambiente sfavorevole o favorevole, è cosa ormai assodata. Si può dire quindi che la disabilità sia una determinata condizione in un ambiente sfavorevole.
Oltre a ciò è generalmente acclarato anche che la non ricchezza e l’handicap creano una sorta di circolo vizioso, tanto che se la povertà è causa di patologie, vale anche il suo opposto. Per le persone che vivono con un handicap, la semipovertà causa insomma una forma secondaria di handicap, legata alle condizioni di vita precaria, agli impedimenti sociali (non solo architettonici), all’accesso alla salute.
Gli individui con disabilità – come esseri umani e perché esseri umani – hanno diritti primari che non è lo Stato a dover attribuire; diritti naturali che proprio perché tali, sottendono prerogative umane insopprimibili che lo Stato deve solo riconoscere. Immagine sfuocata di persona in carrozzina al computerSono quei diritti che nascono con l’uomo e con lui muoiono, costituendo la garanzia vitale dei beni insostituibili e inalienabili della vita, dell’integrità fisica e psichica, dell’uguaglianza e della libertà, della vita stessa.
Ebbene, in tale contesto la società mostra un’attenzione molto parziale nei confronti di tutti noi, persone con “normale disabilità” e soprattutto impotenti o incapaci, forse, a valorizzare – o direi più precisamente a mostrarele nostre non-normalità.
Noi disabili siamo non di rado circondati da leggi che sembrano di specificità e correttezza impareggiabile, ma che al momento della loro applicazione, divengono strumenti quasi devastanti della nostra dignità di vita.
E così, se molti di noi non avessero l’affetto, la vicinanza e l’amore dei familiari e di quelli che con abnegazione si impegnano con noi, certo non sarebbe lo Stato a permetterci una vita che potesse soltanto definirsi tale.

Tornando a quanto si diceva all’inizio, credo sia superfluo affermare che in realtà tutti hanno in sé delle potenzialità che possono evolversi o essere sviluppate a prescindere dalle proprie condizioni psicofisiche. Anche il mondo della “normalità” è pieno di individui con una spiccata ed emergente sensibilità nell’arte, nella cultura, nello sport e quant’altro; ciò però non significa che la “normalità” sia costituita da tali eccezionalità, altrimenti vorrebbe dire banalizzare la normalità stessa.
Ora, credo che nel mondo della disabilità debba essere applicato lo stesso concetto in maniera più profonda e responsabile. Siamo individui che alle quotidiane difficoltà della vita devono aggiungere quella di un corpo non al top e di barriere create (non sempre volontariamente) dalla società.
È proprio questa, paradossalmente, la “normalità della disabilità”. Mi piacerebbe molto non vedere più la “diversità nella diversità”. Vorrei vedere, sentire, vivere il “disabile normale”, non discriminato. La persona che non sempre può frequentare la scuola, che difficilmente può lavorare, che a volte non può uscire per le eterogenee barriere: questo è il “normale disabile”. Tutto l’amore e l’attaccamento per la nostra vita deve quotidianamente fare i conti con gli sguardi curiosi degli altri e con il dover certificare (nel senso letterale del vocabolo!), per poter vedere riconosciuti e tutelati i propri diritti.

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