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Bisogna tenere conto dei bisogni delle persone e della loro volontà

Il presidente della FISH Pietro Barbieri al Palazzo delle Nazioni Unite, durante la seduta che ha portato alla definizione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con DisabilitàLa definizione dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) sembra essere un’impresa piena di ostacoli.
«È così, per alcune ragioni che si sommano tra di loro. La Finanziaria approvata nell’agosto del 2008 prevede 7 miliardi e mezzo di tagli, in tre anni, per le Regioni, sul Fondo Sanitario Nazionale, e questo mette ovviamente in discussione il miglioramento dei Livelli Essenziali attuali rispetto a elementi nuovi. C’è poi il fatto che molte Regioni hanno piani di rientro, per cui si trovano ad aver puntato di più sulla sanità ospedalizzante, sui posti letto, che oggi provano a ridurre, e aver puntato molto poco al territorio, cosa che i LEA sociosanitari affrontano.
Ci sono questi due grandi temi che sono al centro del dibattito politico: da un lato uno Stato centrale che taglia, dall’altro delle Regioni che non sono state in grado di fare altro che produrre posti letto».

Questo che lei dice aiuta a capire perché è stato abbandonato il decreto del precedente Governo Prodi sui LEA?
«Solo in parte. Lì, infatti, c’è un altro fenomeno, eminentemente politico. Il precedente Decreto della Presidenza del Consiglio era stato approvato a governo di fatto caduto, per cui era assai ridotto lo spazio per avere la legittimità di quell’atto. Non solo. Avrebbe anche condizionato l’attuale governo, per cui chi è venuto dopo ha ritenuto che spettasse a lui mettere mano alla cosa. Se l’approvazione del Decreto avesse preceduto la caduta del Governo Prodi, non si sarebbero posti problemi di legittimità, ma il fatto che invece sia stato scelto quel periodo di interregno, ha creato la sensazione che il governo precedente volesse mettere le mani nel “piatto” del nuovo Esecutivo. Io la vedo così e oggi si sta lavorando a un testo che è sostanzialmente quello approvato dal precedente governo. Si stanno limando alcune cose, ma non c’è un impianto drammaticamente diverso.
Ricordo che la motivazione con la quale il minstro Sacconi ritirò il DPCM dei LEA poggiava sul fatto che la Ragioneria Generale dello Stato avrebbe sostenuto che non c’erano risorse per coprirlo per intero. Ma, a fronte di quella motivazione, connessa al fatto che ci sono 7 miliardi e mezzo di tagli sul Fondo Sanitario Nazionale, si procede ora – come dicevo – sullo stesso testo. Per cui delle due l’una: o le risorse per mandare avanti questa nuova catalogazione dei servizi del territorio non ci sono o invece ci sono. Se ci sono, allora vuol dire che il problema era altro. Era in ballo la “questione ospedali” e la Ragioneria di Stato non aveva tenuto conto che l’accordo in Conferenza Stato-Regioni, promosso dall’allora ministro della Salute Livia Turco, vedeva risparmi ulteriori sui posti letto».

Una situazione, dunque, in evoluzione. Ma allora perché avete scritto una lettera con la quale vi siete detti preoccupati «per i servizi abilitativi socio-sanitari, per le malattie rare e per gli ausili tecnologici»? [Ci si riferisce alla lettera-appello della FISH da noi ripresa nel testo intitolato Continua il «rimpallo» sui nuovi LEA e il Nomenclatore, disponibile cliccando qui, N.d.R.]
«Ho la bozza del Decreto a portata di mano; è un testo enorme. Un librone, con tante tipologie diverse. Nel dibattito, nell’ambito della Conferenza Stato-Regioni, si è paventato a un certo punto che si potesse procedere all’approvazione del Decreto senza alcune parti. Allora dicevamo “attenzione, perché noi non riteniamo che sia giusto, anche perché significherebbe che quelle parti non approvate, presumibilmente più quella sugli ausili, avrebbero atteso altri anni prima di essere riaffrontate”. L’idea che era nata in quel momento, di stralciare la parte relativa agli ausili, era molto pericolosa: le tecnologie previste dal precedente Nomenclatore, quello di dieci anni fa, sono infatti morte e sepolte; dieci anni sono “un’era geologica”, insomma. Quindi, per noi, doveva uscire tutto e al più presto».

È quello che si è detto, che cioè non ci fosse la volontà di varare tutti i Livelli Essenziali. Per colpa soprattutto delle Regioni?
«Non delle Regioni. In Conferenza Stato-Regioni è emerso un partito trasversale al Governo e alle Regioni che ha ragionato così: su questo non c’è accordo, allora andiamo avanti con il resto. Se questa fosse o meno una minaccia per spingere a un accordo, non lo sappiamo. Comunque questa eventualità si è prospettata e sicuramente non risaliva alle sole Regioni: era invece assunta da pezzi del Governo e da parte delle Regioni. All’interno della Conferenza Stato-Regioni le dinamiche politiche che conosciamo (centrodestra e centrosinistra) cambiano completamente. Noi ci siamo spaventati quando ci siamo resi conto di quello che poteva accadere, quando è stato detto che alcuni LEA sarebbero stati stralciati».

La lettera che avete scritto teneva conto di queste intenzioni…
«Esattamente. Abbiamo scritto che gli ausili dovevano rimanere dentro, perché non si possono tollerare altri anni di attesa. In altri Paesi, ogni anno, ogni due anni, verificano le tecnologie e aggiornano i prontuari degli ausili e delle protesi».

Com’è noto, in alcune Regioni le RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali) per disabili sono state realizzate (vedi il Veneto), in altre no. Il tema ci riporta proprio ai LEA e al proposito di molte Regioni di liberarsi quanto più possibile del peso del sociale, scaricandolo sui Comuni e sugli utenti. Con il risultato che i diritti dei disabili variano da un punto all’altro del nostro Paese.
La manifestazione nazionale indetta dalla FISH nel 2005 a Roma«Il discorso è complesso. Parto dal cittadino italiano che sa bene quante tasse si pagano nel nostro Paese e quale sia il livello dei servizi. Il confronto con quello che avviene in altri Paesi giustifica una domanda: ma dove finiscono le risorse di cui dispone lo Stato italiano? Nel gioco che vede coinvolti lo Stato centrale, le Regioni, i Comuni e via discorrendo, si rischia di perderci e di perdere il senso delle cose di cui parliamo.
Allora, ci sono cittadini con disabilità che hanno bisogno di residenzialità, fermo restando che vorremmo recuperare una vecchia battaglia dell’abitazione civile e non dell’istituto. Ma l’aspetto più generale ci confonde, perché sembra quasi che le risorse che sono gestite dalle Regioni, dallo Stato o dalle Province siano “risorse altre” e non tasse dei cittadini. Le aliquote che pesano sui redditi degli italiani sono alte: i cittadini pagano. Ripeto che in altri Paesi i cittadini si vedono restituiti servizi di ben altra qualità.
Dobbiamo fare una riflessione seria su questo, prima ancora di chiederci di chi è la competenza, a chi spetta pagare o non pagare ecc. Per procedere in questa direzione, dobbiamo ricondurre la questione non a chi gestisce (a chi ha l’onere di programmare, realizzare, o integrare, gestire), ma recuperare la capacità di stabilire cosa serve al cittadino in condizioni di bisogno, mettendo al centro delle politiche la persona e non i servizi e le competenze. Riportare tutto questo all’interno dei Livelli Essenziali significa parlare di Progetto Individuale ovunque. La persona e i suoi bisogni debbono orientare la spesa, non l’amministrazione, il medico o l’operatore sociale.
Se è vero, come è vero, che la qualità della residenzialità che noi abbiamo è un disastro e non riguarda solo il Sud – persino il Veneto che è all’avanguardia, infatti, ha situazioni che non sono delle migliori – bisogna fare una riflessione seria su tutto questo. Non basta elencare standard qualitativi e poi dire chi paga cosa: non è sufficiente. A fronte delle risorse che abbiamo su questo terreno, in realtà disponiamo di servizi scadentissimi, per cui il vecchio schema di prendere un 30% dal Comune e un 70% dalla Sanità, o viceversa, non determina la qualità, anche nel migliore dei casi. La qualità si ha se c’è il progetto individuale ed è di quella persona e non degli operatori. Per questa via si torna all’abitazione civile e non a una residenzialità protetta».

Lei naturalmente conosce la situazione nel Lazio e l’idea di questa Regione di passare dai Centri di Riabilitazione a RSA per disabili, sempre in relazione all’esigenza di tagliare la spesa…
«Le dico subito quello che penso. La Regione Lazio, da questo punto di vista, è senza orientamento. Vive una situazione drammatica dal punto di vista economico e della gestione: le dimensioni del fenomeno portano a dire che non c’è governo, non c’è mai stato governo, non c’è mai stata una programmazione e il tentativo di riprendere questo governo della spesa sanitaria, solo dal punto di vista economico, porta a volte a buone scelte, ma in altri casi no.
Il taglio dei posti letto in alcune circostanze non è casuale, ma è la conseguenza di un’attenta valutazione di merito. Capita però che avvenga anche per via orizzontale, senza che ci si metta a riflettere, a ragionare. D’altro canto questa è un’eredità storica che pesa nel Lazio, anche in termini tecnici: ci si affida, infatti, all’agenzia di sanità pubblica per operare, e non all’assessorato, spesso defraudato dei suoi poteri.
Quelli a cui accenno sono tutti fatti da valutare per dare un giudizio sulla Regione Lazio. Dopo di che, qual è il modello? Non è certo quello di prendere l’articolo 26 e trasformarlo in RSA [ci si riferisce all’articolo 26 – “Prestazioni riabilitative” – della Legge 833/78, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, N.d.R.]. Sarebbe un’operazione bieca, piccola, stupida che non fa altro – come è già successo in Lombardia – che far pagare non ai Comuni, ma alle famiglie, il costo della persona assistita. Manca una valutazione di merito; in che misura ci siano progetti individuali; che potenzialità riabilitativa hanno queste strutture; in che modo fanno rete con altri soggetti per l’inclusione sociale di quelle persone. Tutto questo non è all’ordine del giorno. Come rivoltare allora questa impostazione?
Ci vorrà uno stop, prima di tutto, alla trasformazione dell’articolo 26 in RSA. Senza questa interruzione, infatti, è evidente che non ci sono i margini per mettersi a trattare sul dove e come portare le risorse. Secondo presupposto è che ci sia una legislatura davanti, perché non credo che una riforma del genere, che vada a ragionare su cosa debbono fare determinate strutture, in che modo, con quali contenuti, con quali risorse, possa essere fatta nell’anno che ci separa dalle elezioni, un anno sostanzialmente elettorale.
Dopo di che si richiedono altre cose: prima di tutto che ci sia un riconoscimento reciproco, che non può riguardare solo istituzioni e gestori dei centri. Bisogna partire soprattutto dai bisogni delle persone e quindi da chi li rappresenta. In tutto questo dibattito sull’articolo 26, le associazioni, i genitori non sono mai stati tenuti in considerazione. Le posso anche dire che in alcuni casi, purtroppo, notiamo una strumentalizzazione. Il Centro X, il giorno dopo che ha subito il taglio delle prestazioni, è su tutti i giornali perché “manda in piazza i genitori”. Non è una soluzione esaltante. Anche perché il decisore politico, quando è nella necessità di fare un taglio, lo fa, punto e basta, senza discutere con nessuno. Bisogna recuperare una capacità, da parte di tutti, di saper ragionare sui bisogni delle persone con disabilità e quindi ci vuole un riconoscimento di chi le rappresenta».

Parlare di RSA significa prima di tutto pensare agli anziani, perché, per loro, questo genere di strutture una certa diffusione l’ha avuta.
«Vede, il punto è che la strategia delle RSA è una strategia che sta andando a esaurirsi. Affrontare il tema della non autosufficienza nell’età adulta sembrava portare solo in quella direzione, mentre invece – ad alcuni anni di distanza – sappiamo che la maggior parte degli anziani muore nella propria abitazione e che l’intervento pubblico è limitato a ciò che è sanitario. Con un minimo di assistenza domiciliare integrata (l’infermiere che cura la piaga, l’ausilio, il pannolone ecc.) e un intervento sociale degno di questo nome che è l’indennità di accompagnamento.
Questo sappiamo. Dopo di che esistono dei sotto-insiemi, esistono cioè delle persone che hanno una fragilità sociale – perché non hanno famiglia, non c’è nessuno che possa occuparsi di loro – e queste sono in numero assai ridotto: talmente ridotto che in alcuni territori hanno dovuto chiudere delle RSA: hanno fatto delle RSA per il week-end, quando i figli di questi anziani, con le loro famiglie, se ne vanno in vacanza nel fine settimana.
«Bisogna recuperare una capacità, da parte di tutti, di saper ragionare sui bisogni delle persone con disabilità e quindi ci vuole un riconoscimento di chi le rappresenta...»Tutto questo, all’atto pratico, che cosa significa? Che bisogna tener conto dei bisogni delle persone. Delle loro volontà. Non si può allora pensare di ristrutturare qualcosa che poi non funziona. Molto meglio ragionare di housing sociale, di altre cose, riconoscendo all’anziano una sua dimensione autonoma, accompagnata da alcune forme di aiuto nei suoi confronti, con il criterio, ad esempio, dell’albergo diffuso».

Lei sa, in ogni caso, che sulle RSA per anziani c’è un forte gioco speculativo, ci sono interessi e c’è una pressione in quella direzione. Va allora regolato questo gioco speculativo, chiedendo almeno la qualità dei servizi erogati?
«Questo è evidente. Le dico però qual è il problema di tutto questo: se uno non ha ben chiara la prospettiva, la qualità diventa una sorta di “pannicello caldo” e quindi arriva l’imprenditore X della sanità il quale, costruita la struttura, chiede l’autorizzazione, impegnandosi a rispettare sulla carta certi criteri di qualità. Poi bisognerà vedere cosa succede, anche perché i controlli non ci sono.
Il problema, dunque, ritorna ad essere quello a monte: dev’essere chiara la prospettiva in base alla quale si fanno le scelte. La programmazione dev’essere fatta in un regime stretto di governo del territorio, potendo dire che “non abbiamo bisogno di migliaia di posti letto in RSA, ma magari di qualche centinaio” e su questa esigenza reale fare programmazione. Il che significa che le risorse recuperate io le metto sul territorio per interventi di assistenza domiciliare, di day hospital, di centri diurni. Questo è il centro del discorso.
Bisogna avere il coraggio delle idee e della capacità di praticarle. Roma, ad esempio, paga il fatto di avere un gran numero di strutture che possono essere riciclate come RSA per anziani. Cosa facciamo? Aspettiamo che ci venga addosso questa “valanga” o cerchiamo subito di mettere dei paletti chiari, sia nelle regole che nella programmazione?».

Conoscenza dei bisogni reali, dunque.
«Ci vuole un ragionamento complessivo e saper dire di no agli imprenditori della sanità, chiunque essi siano, e, aggiungo, anche del no-profit. E poi è fondamentale la verifica in qualunque struttura. La gente organizza la propria vita secondo i propri canoni. Il che, dal mio punto di vista, è estremamente positivo. E allora, a livello istituzionale, cosa serve? Serve che ci si muova da facilitatori delle scelte di quella persona, di quella famiglia. Non servono servizi strutturati, di tutti i livelli e gli accreditamenti possibili: si tratta di sovrastrutture ormai inutili; è invece fondamentale sostenere i cittadini nelle loro scelte. Tra l’altro, anche nel campo dell’articolo 26, ci sono delle strutture che da diverso tempo seguono un criterio qualitativo.
Bisogna ragionare in modo nuovo. Certo, se c’è una famiglia con un disabile grave e non ha alternative, nel senso che deve ricoverarlo da quale parte, è chiaro che lo ricovererà. Diventa una scelta obbligata. Ma in generale bisogna avere più fiducia nei cittadini».

Far conto sulla famiglia è nella tradizione italiana, anche se le cose cambiano e in molti casi le famiglie, per una ragione o per l’altra, non sono più in grado di portare il peso di certe situazioni.
«Il quadro è sempre in movimento. Dopo di che bisogna fare attenzione. Lo dico in maniera molto chiara. Io non ho mai partecipato al coro dei “familisti”, tipo family day, e non intendo parteciparvi. Cerco di registrare un’attitudine naturale. Accade in continuazione che i genitori abbiano cura dei figli e che i figli, diventati adulti, facciano lo stesso verso i loro padri e madri, per cui le marginalità sociali – nelle quali il fenomeno prende delle pieghe distorte – sono sicuramente marginalità sulle quali dover intervenire. Quello che dico è però – per come sono oggi strutturati i servizi – che nei confronti della gran parte delle famiglie non c’è fiducia. Non posso pensare che la famiglia venga esclusa dal percorso riabilitativo del proprio figlio, quando è l'”agenzia principale” di educazione del figlio stesso; è la famiglia che va potenziata e certi interventi abilitativi-rieducativi andrebbero fatti sulla famiglia, più che su quella persona.
Certo il problema delle marginalità sociali esiste o si manifesta di più con l’avvicinarsi del “dopo di noi”. E tuttavia bisogna affermare con decisione che quelle persone non possono essere isolate, segregate, perché non hanno commesso alcun reato. Bisogna pensare che ci possono essere altre soluzioni, come la creazione di piccole comunità, che siano abitazioni civili declinate sempre più sul percorso individuale, dalle quali la persona possa anche uscire: sia contemplato che possa essere anche un soggiorno temporaneo. Quella persona non può rimanere, nel corso di una giornata, sempre chiusa. Quello che abbiamo sperimentato in Veneto è che le persone – in microstrutture, diurne o semidiurne, residenziali o semiresidenziali – vivono il loro quartiere, la loro città, il loro posto, facendo tante cose diverse .
Non mi basta più che ci sia un “minutaggio di assistenza” entro quella certa struttura residenziale. Non risponde a nessuna caratteristica che coincida con i diritti fondamentali delle persone».

Tornando ai LEA, quali sono le sue previsioni circa il varo?
«Temo sia come fare le previsioni del tempo o stabilire come e quando usciremo dalla crisi economica. Di certo sappiamo che c’è un legame forte tra la trattativa sul cosiddetto Patto per la Salute e l’atteggiamento delle Regioni, che condizionano a quella trattativa l’approvazione dei LEA. Sembra che abbiano trovato un accordo nel senso che sia meno vincolante il rapporto tra le due cose.
Tendenzialmente – questo è quanto affiora dalle “segrete stanze” – il percorso dovrebbe essere questo: si trova prima un pre-accordo sul patto economico (Patto per la Salute), che viene definito nei dettagli tra settembre e ottobre, prima dell’approvazione della Finanziaria. Questo significherebbe che, subito dopo il pre-accordo e prima dell’accordo completo, verrebbe approvato il Decreto della Presidenza del Consiglio sui LEA: il che potrebbe farci sperare che entro l’estate si arrivi ad una conclusione. Non è una previsione, è una speranza». (Antonio Leone)

*Intervista apparsa in «Riabilitare News» (numero doppio 04-05 del 4 maggio 2009), periodico della FOAI (Federazione degli Organismi per l’Assistenza alle Persone Disabili) e qui ripresa per gentile concessione.

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