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Non tutte le metodiche sono ascientifiche

Immagine volutamente sfuocata con molte palline colorate e una personaIn riferimento all’articolo di Giorgio Genta apparso in queste colonne, dal titolo I nostri quattro aggettivi preferiti [disponibile cliccando qui, N.d.R.] e in particolare parlando del cosiddetto “metodo Doman“, che ha suscitato annose polemiche nel campo della riabilitazione, non credo si possa portare a conferma di esso – sia pure ampiamente rivisto e depurato dalle esasperazioni indifendibili del metodo originale e di molti epigoni – il recente convegno sull’autismo svoltosi a Genova [il nostro sito se n’è occupato con il testo disponibile cliccando qui, N.d.R.].
Scrivendo infatti: «Nessun desiderio di riaprire qui annose polemiche pro o contro tale metodica: ben nota è la sua ascientificità – comune del resto a tutte le metodiche del settore – controverso l’esame statisticamente obiettivo dei risultati ottenuti ecc.», il rischio è quello di ottenere il cosiddetto “effetto notte”, in cui “tutte le vacche sono nere”!

Non si può ad esempio affermare che non ci siano validazioni scientifiche per le metodiche centrate sull’ABA [Applied Behavior Analysis – “Analisi Applicata del Comportamento”, N.d.R.], dato che il metodo comportale si è sempre basato sull’analisi scientifica e pignola dei risultati e il citato convegno di Genova porta soltanto il più recente dei diversi contributi arrecati da molti decenni.
È dalla metà degli anni Sessanta che Ole Ivar Lovaas – uno dei “padri” del metodo ABA in ambito di autismo – ha cercato di lavorare sui piccolissimi e moltissimi altri autori hanno sostenuto che la plasticità del cervello della prima infanzia consente di ottenere risultati migliori rispetto all’intervento successivo.
Le metodiche di tipo comportamentale non sono quindi soltanto intensive, ma anche molto strutturate.

Infine le strategie educative usate per le sindromi autistiche – come il TEACCH (Treatment and Education of Autistic and related Communication-handicapped CHildren) dagli anni Sessanta e il Denver Model – tengono ben presente il bambino nella sua interezza e ancor più nella sua prospettiva futura di diventare uomo, per cui preparano l’inclusione nella società degli adulti.

*Docente di Programmazione dei Servizi Sociali e Sanitari dell’Università di Modena e Reggio Emilia.

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