Stimola il dibattito la lunga intervista al presidente della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) Pietro Barbieri, sul ruolo delle associazioni, da noi recentemente pubblicata con il titolo Le associazioni e la tutela dei Cittadini con disabilità (la si legga cliccando qui). Rispondendo a Giuliano Giovinazzo, Barbieri affrontava il delicato tema dell’attuale capacità di rappresentanza delle associazioni. In particolare si chiedeva al presidente della FISH di analizzare le ragioni della crescente sfiducia dei singoli nei confronti delle associazioni (nell’intervista venivano citati casi concreti riportati anche in Superando) e di proporre nuove modalità di rappresentanza.
Barbieri, da una parte, ritiene sia normale che non tutti si sentano rappresentati da un ente, così come «la stragrande maggioranza dei lavori non è iscritta a un sindacato». Dall’altra, suggerisce un percorso nuovo per le associazioni che vogliano ravvivare la partecipazione. Si tratta di «uscire dalla logica di gestire risorse di servizi o di progetti e andare verso la tutela del cittadino consumatore di beni e servizi (erogati dal settore pubblico o meno), e quindi verso la capacità di promuovere la tutela individuale e generale. In tribunale».
Giampiero Griffo, dell’esecutivo mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International), condivide tali posizioni: alle associazioni serve un cambiamento. Contemporaneamente, egli intende arricchire l’analisi con ulteriori considerazioni. Secondo Griffo, infatti, non si può sottovalutare l’attuale momento di crisi economica, perché sui cittadini con disabilità esso si manifesta ancor di più.
Gli chiediamo di spiegarci meglio cosa intende.
«La povertà si ha non solo per mancanza di risorse, ma anche a seguito di un impoverimento sociale. I due fattori si combinano. Mi spiego meglio: ogni volta che a una persona con disabilità viene impedito o limitato l’accesso a un diritto o a un servizio, ne consegue un impoverimento sociale, perché quella persona si vede limitata l’acquisizione di competenze, esperienze e conoscenze in quell’àmbito e negli àmbiti collegati».
Un esempio per capire meglio?
«Certo. Se una persona con disabilità non può accedere all’autobus, non solo viene privata di questo servizio, ma perde anche tutta una serie di opportunità ad esso collegate, come andare all’università o al cinema o frequentare determinati ambienti utili sia alla formazione professionale che all’esperienza umana generale. Le ripercussioni seguono “a cascata”: infatti, se non vado all’università non mi laureo, se non mi laureo non trovo lavoro qualificato, se non trovo lavoro qualificato non posso pagare il mutuo per la casa e così via. Quello che voglio dire è che la crisi economica generale che stiamo vivendo rischia di aumentare le situazioni di emarginazione delle persone con disabilità e delle loro famiglie. In conclusione, questo impoverimento lede i diritti umani».
Ci sono dati scientifici a proposito di questo fenomeno?
«Una ricerca dell’organizzazione inglese Leonard Cheshire Disability di qualche tempo fa [la ricerca si può leggere integralmente in inglese, cliccando qui, N.d.R.] dimostrava che una famiglia di cui un membro è persona con disabilità ha il doppio delle probabilità di diventare povera rispetto a un’altra famiglia. La stessa ricerca faceva emergere che il 30% di persone con disabilità vivono al di sotto della soglia di povertà inglese, a confronto del 16% delle persone non ancora disabili».
Allora è importante che le associazioni chiedano l’aumento delle pensioni, come si discuteva nell’intervista a Pietro Barbieri…
«Il fatto è che non è più solo questione di aumentare le pensioni, che certo sono molto basse. In realtà occorre intervenire in percorsi di empowerment**. Quando la Convenzione ONU sui Diritti Umani delle Persone con Disabilità sottolinea che «la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri», mette in evidenza che è la società che produce la disabilità e non la condizione di limitazione funzionale dei singoli. Gli interventi di welfare indirizzati alle persone con disabilità purtroppo partono dall’assunto che siano le persone con disabilità incapaci e fragili, e prevedono interventi di protezione e di assistenza. La Convenzione ONU, invece, definisce per legge le responsabilità degli Stati a garantire l’inclusione delle persone con disabilità e il pieno godimento dei diritti e delle libertà fondamentali. In questo senso, il modello di welfare dovrebbe spostarsi dalle tradizionali forme di intervento legate al concetto di protezione sociale verso un discorso che entri nel merito dell’impoverimento e delle discriminazioni. Lo scopo dovrebbe essere quello di ottenere benefit finalizzati appunto all’empowerment, l’unica strada concreta per ottenere l’inclusione sociale».
Cosa si intende per “benefit finalizzati all’empowerment”?
«Mi spiego con un esempio. In Germania, i lavoratori con disabilità hanno un benefit per il trasporto. Lo Stato in questo caso non fornisce loro un sostegno generico come la pensione o altre facilitazioni non finalizzate, ma ritiene che la compensazione sulle spese di trasporto – che è inaccessibile anche in Germania – permetta alla persona con disabilità di accedere a opportunità fondamentali che gli spettano in quanto cittadino. Non potendo il cittadino con disabilità accedere normalmente a tutti i mezzi di trasporto pubblico, lo Stato si offre di sostenerlo economicamente nei costi aggiuntivi che deve sostenere».
Ma in questo modo la persona con disabilità riesce ad emanciparsi?
«Il “welfare mirato” in sé non basta, se prima la persona con disabilità non ha fatto un passaggio dentro di sé, comprendendo che non è lei a essere sbagliata, ma è la società che la discrimina. Per questo do molta importanza al lavoro della consulenza alla pari, altro elemento fondamentale che le associazioni dovrebbero essere in grado di offrire [sulla questione della consulenza alla pari, si veda ad esempio, nel nostro sito, una recente intervista a Rita Barbuto, direttore di DPI Europe, disponibile cliccando qui, N.d.R.])».
Quindi non basta offrire le possibilità, ma occorre anche far sì che le persone si rendano conto di poterne usufruire…
«Amartya Sen (Premio Nobel per l’economia nel 1998) e la sua allieva Martha Nussbaum si sono accorti di un paradosso: si spendono molti soldi per l’emancipazione delle donne nei Paesi in Via di Sviluppo, eppure i miglioramenti non sono apprezzabili. La spiegazione che hanno dato è la seguente: non basta spendere, occorre offrire un servizio che accresca le capacità delle donne. Loro parlano di questo concetto utilizzando la parola capability, che è utilizzata con il significato di “divenire competenti”».
La capability coincide con quanto si raggiunge con la consulenza alla pari?
«Non proprio. La capability si riferisce all’acquisizione di capacità concrete. La consulenza alla pari aiuta invece la persona a raggiungere una maggiore consapevolezza dei propri diritti. Infatti, non basta acquisire le competenze per abilitarsi, ma è fondamentale capire perché si è “disabilitati”, occorre comprendere che è la società che ci disabilita. L’empowerment comprende entrambi questi concetti».
La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità affronta questi temi?
«All’articolo 26 essa sottolinea che gli interventi verso le persone con disabilità devono essere di riabilitazione e abilitazione nei servizi sanitari, educativi, lavorativi, e nei servizi sociali. Il concetto espresso è che gli interventi che lo Stato mette in campo devono garantire il recupero delle funzionalità perdute (è la riabilitazione), ma anche far sì che la persona possa recuperare il più alto grado possibile di autonomia, partendo dalla sue limitazioni funzionali stabilizzate (è l’abilitazione). Si tratta di due concetti complementari.
Attualmente, in Italia, esiste l’intervento riabilitativo a carico dello Stato, ma, quando la condizione si è stabilizzata, diventa insufficiente se non inutile. Lo Stato, invece, non si sente altrettanto coinvolto nella fase dell’abilitazione, relativa alla fornitura degli ausili, ad esempio, che rimangono sostanzialmente legati ancora a valutazioni economiche. Uno Stato che offra a tutti, anche a chi ha limitazioni funzionali, la possibilità di accedere a diritti, beni e servizi è uno Stato che si occupa con appropriatezza delle persone con disabilità nello specifico, pur agendo nei confronti di tutta la cittadinanza. Questo passaggio comporta un approccio culturale nuovo, per cui la persona con disabilità non è vista come una persona malata che richiede per forza un trattamento sanitario, ma è una persona che vive la condizione di disabilità con caratteristiche che appartengono alla condizione umana: nell’80% dei casi, infatti, la disabilità deriva dal fatto che la società non è intervenuta per rimuovere ostacoli e barriere, discriminazioni e condizioni disabilitanti, creando così l’impoverimento di una parte della sua popolazione».
In conclusione cosa si può dire?
«La disabilità è sempre di più una relazione sociale in cui non è la limitazione personale l’elemento più importante, bensì le risorse che la società dà alle persone con disabilità perché possano venir abilitate e riabilitate a vivere in società. Le associazioni e le stesse persone con disabilità devono spingere per una trasformazione culturale del modello di welfare, indirizzato non più solo alla protezione sociale e all’assistenza, bensì verso servizi di empowerment e di sostegno all’inclusione sociale. Vorrei concludere con uno slogan: piuttosto che riabilitare le persone con disabilità, va riabilitata la società a trattarci in maniera rispettosa dei nostri diritti umani». (Barbara Pianca)
*Membro del Consiglio Mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International).
**Per empowerment si intende in sostanza il processo dell’azione sociale attraverso il quale le persone, le organizzazioni e le comunità acquisiscono competenze sulle proprie vite, al fine di cambiare il proprio ambiente sociale e politico per migliorare l’equità e la qualità della vita.