Ho letto l’articolo di Giorgio Genta pubblicato in Superando, con il titolo Ma da dove nascono i «viaggi della speranza»? [lo si veda cliccando qui, N.d.R.] e vorrei provare a dare una risposta nata dalla mia esperienza personale e associativa.
Quando nasce un bambino con disabilità, nella maggior parte dei casi alle famiglie non viene data alcuna informazione su come comportarsi, quali sostegni richiedere, dove rivolgersi per la riabilitazione motoria, logopedica, visiva; insomma, a questi genitori viene posto tra le braccia un bambino e a parte la “pacca sulla spalla” come segno di condivisione, non viene offerto altro. Si arriva a casa, ci si informa, spesso ci si deve sottoporre insieme al bambino ad accertamenti genetici per individuare ove possibile la sindrome o la malattia che ha cambiato la vita, si legge, ci si informa tra genitori, si arriva all’équipe territoriale e qui si ha la risposta alla domanda di Giorgio Genta: i viaggi della speranza nascono dalla totale solitudine e disinformazione in cui vengono a trovarsi i genitori, che cercano così – con cuore colmo di speranza – di trovare una soluzione al problema del loro figlio, per cui si affidano al sentito dire, all’esperienza di altri, anche se con patologie diverse, e questo perché sul territorio di residenza non hanno trovato risposte soddisfacenti.
La realtà, la dura realtà è che in Italia di fatto non esiste una riabilitazione che abbia un senso, perché non si riabilita certamente un bambino con una seduta di psicomotricità o di fisioterapia domiciliare o ambulatoriale alla settimana (solo in poche ASL italiane si ritengono utili sedute più frequenti). Né si riabilita un bambino solamente con ripetuti movimenti passivi senza coinvolgere anche il fattore cognitivo – pur se compromesso in maniera importante: sempre più spesso, infatti, nelle gravissime disabilità viene detto ai genitori che «la fisioterapia non serve», perché il bambino è troppo grave e sarebbe inutile (ma questi medici hanno la “sfera di cristallo” per poterlo asserire?). La logopedia, poi – finalmente vista non più solo come aiuto per la comunicazione verbale, ma anche per stabilire un qualsiasi contatto visivo, tattile e uditivo, utile comunque a entrare in sintonia – non viene proposta prima dei tre anni, perché, viene detto, «prima non serve» (incompetenti!).
Cosa deve fare un genitore in questi casi? Stare a guardare il proprio figlio peggiorare inevitabilmente senza provare a far nulla? Ci si consulta con altri genitori, ci si scambiano informazioni e si naviga in internet, si trovano Centri (e voglio parlare solo di quelli seri e corretti, tralasciando quelli che speculano sulla disperazione dei genitori), che fanno fisioterapia tutti i giorni, che offrono logopedia anche ai bambini piccolissimi, che sfruttano la grande opportunità dell’acqua con frequenti sedute riabilitative in piscina, che spiegano le funzioni dei vari ausili consigliati, che offrono una speranza non di guarigione, ma di piccoli e duraturi miglioramenti, e questo per un genitore è già un insperato traguardo.
I genitori – quelli coscienti, obiettivi, con i piedi per terra – si impegnano anche a sollecitare le varie ASL per migliorare e proporre nuove metodiche, per collaborare per il bene dei propri figli, ma trovano sempre ostacoli enormi ad essere presi in considerazione. I medici, infine, sono troppo spesso determinati a togliere le speranze di un possibile miglioramento delle condizioni dei nostri bambini, chiedendoci la rassegnazione, assolutamente impensabile.
Ecco dunque la mia opinione – ma sono sempre disponibile a ogni approfondimento – sul perché dei viaggi della speranza: in Italia non ci sono Centri riabilitativi in numero adeguato che veramente si occupino di riabilitazione dell’età evolutiva; si possono contare sulle dita di una mano, hanno liste d’attesa lunghissime e non offrono tutto quello che offrono i Centri stranieri – sia quelli seri che quelli che speculano – e la soluzione per evitare questa “emigrazione” che costa spesso anche molto al nostro Servizio Sanitario Nazionale, non è certamente quella di consigliare ai medici specialisti moderazione nelle prescrizioni. L’unica soluzione, invece, sarebbe quella di offrire a tutti i bambini e agli adulti con disabilità una riabilitazione seria, intensiva e credibile anche in Italia.
In questo momento, poi, in cui le sanità regionali devono far “pareggiare i conti” e limitano quindi ulteriormente la riabilitazione ai bambini e agli adulti con gravissime disabilità, in maniera assurda e inaccettabile, si può criticare chi si rivolge all’estero?
Ma non si dice ovunque che la salute è un diritto? E la riabilitazione non fa parte di questo ?
*Presidente Associazione “Claudia Bottigelli” – Difesa dei Diritti Umani e Aiuto alle Famiglie con Figli Disabili Gravissimi.