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In difesa dell’inclusione scolastica

Andrea CanevaroIl livello di emergenza cui siamo arrivati, in riferimento all’inclusione scolastica degli alunni con disabilità, richiede un intervento straordinario a difesa di quei diritti che hanno permesso a migliaia di ragazzi di costruirsi un futuro qualitativamente migliore. Gli sforzi che quotidianamente, tutti insieme, operatori del mondo della scuola, famiglie e associazioni di volontariato spendono per una scuola di qualità, sono puntualmente cancellati dalle scelte di un Governo che considera la persona solo e unicamente come un “costo passivo” e non come portatore di diritti, questo anche in riferimento alla sanità e alle politiche sociali, oltre che alla scuola.
Per tali motivi, riteniamo fondamentale rinnovare i nostri sforzi a difesa della scuola pubblica, ove per pubblica intendiamo una scuola per tutti e abbiamo pensato di iniziare proprio dall’analisi dello stato attuale dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità, attraverso una serie di interviste a chi da sempre si occupa di questo tema. Non vogliamo però fermarci solo all’analisi, ma se possibile anche presentare delle proposte con un approccio pedagogico alternativo alle scelte politiche scolastiche dei “tagli e delle economie presunte”. Chiaramente non potevamo non iniziare dal professor Andrea Canevaro. (Vito Bardascino, responsabile Area Integrazione del Progetto
Scuole Aperte – Assessorato all’Istruzione, alla Formazione e al Lavoro della Regione Campania)

L’8 ottobre 2008 tutte le agenzie stampa e i siti web che si interessano di disabilità pubblicavano la lettera di dimissioni di Andrea Canevaro e Dario Ianes dall’Osservatorio Ministeriale sull’Integrazione Scolastica [se ne legga nel nostro sito cliccando qui, N.d.R.]. Il 17 novembre 2009, poi, nella mozione finale del Settimo Convegno Internazionale di Rimini sulla Qualità dell’integrazione scolastica della Erickson, dal titolo Una vita non si boccia. Mai, veniva dichiarato: «Altrettanto denunciamo i rischi di deriva sociale che viviamo ogni giorno e che temiamo portino oggi a un punto di non ritorno, a seguire un appello… Anche a voi diciamo chiaro e tondo basta, rivolto ai Signori politici, amministratori, responsabili istituzionali!… sindacalisti!… delle chiese e del terzo settore!… dell’economia e della produzione!… cittadini qualsiasi della nostra Italia!» [se ne legga nel nostro sito cliccando qui, N.d.R.]. Le chiedo quindi, professor Canevaro, a distanza di alcuni mesi da quel Convegno di Rimini e a pochi giorni dal Convegno L’integrazione delle persone con disabilità. Lo sguardo della pedagogia speciale (Milano, 25-26 febbraio 2010), si è registrata un’inversione di tendenza oppure no?
«Direi proprio di no. Si è perfezionato il dispositivo che permette – o consente – di affermare princìpi costituzionali con solennità e nelle pratiche quotidiane disattenderli. Inoltre si sta verificando qualcosa che rende ingovernabile il sistema educativo. Vengono annunciati con clamore provvedimenti chiaramente non applicabili, come quello delle quote di alunni di altre culture (immigrati). Il clamore del provvedimento è quello che si vuole. La confusione che genera non interessa chi l’ha proclamato. È la logica dello spot, che permette di superare con la massima disinvoltura l’impaccio della coerenza di un disegno, permettendo di affascinare in un istante con un’affermazione e nell’istante dopo con il suo contrario.
In questo momento l’Italia sta disattendendo in maniera sfacciata la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dalla Legge dello Stato 18/09».

E quindi ciò vuol significare che in Italia stiamo correndo realmente il rischio di azzeramento del processo trentennale dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità…
«Non è per fortuna semplice disfare in un attimo alcuni decenni di storia, che è anche storia del diritto e dei diritti. Vi sono resistenze molteplici e anche efficaci. E il vero nemico è il malgoverno mascherato da efficientismo. L’aumento degli effettivi per classe è in contrasto con le norme di sicurezza. È uno dei tanti esempi di incapacità di governare, nascondendo tale incapacità dietro la maschera dell’efficientismo e del fare».

Il logo del Progetto «Scuole Aperte» della Regione CampaniaMa le responsabilità a chi sono da addebitare? Alla scarsa o quasi nulla attenzione dell’attuale classe politica governativa, alla qualità dell’inclusione degli alunni con disabilità con bisogni educativi speciali oppure le responsabilità di questa deriva sono da ricercare anche altrove?
«Le responsabilità sono innanzitutto di chi in questo momento governa. E anche di chi dimentica o non vuole conoscere il percorso che è stato fatto. La responsabilità viene evitata con l’ignoranza colpevole, che è perdita di memoria. In certi momenti essere responsabili vuol dire saper trasgredire. Chi cresce ha quasi il bisogno di “trasgredire”. Edelman [Gerald Maurice Edelman, biologo, Premio Nobel per la Medicina, N.d.R.] sostiene che l’evoluzione dell’intelligenza umana è passata attraverso la possibilità e la capacità di trasgredire, ovvero di non conseguire una routine troppo stretta e tale da diventare “un destino senza sorprese”. A maggior ragione chi vive con una disabilità deve liberarsi dal “destino segnato”. E questo è diventato un impegno proclamato in tante sedi, ma non sempre seguito da pratiche coerenti.
La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità riguarda 650 milioni di individui nel mondo. È un mondo in cui la mobilità delle popolazioni è in continuo aumento; in cui la media della durata della vita, in Paesi come il nostro, è aumentata (invecchiamento della popolazione); in cui si calcola che, in media, un individuo che viva 70 anni avrebbe 7 anni – anche cumulativi – di condizione di disabilità. La disabilità, come emerge dalla Convenzione, è un concetto in evoluzione. L’articolo 1, ad esempio, ribadisce che la disabilità è il risultato dell’interazione tra le caratteristiche delle persone e le barriere attitudinali e ambientali che esse incontrano. È inscindibile dalla qualità della vita; che può dipendere da una rete sociale attiva, dall’accessibilità dell’informazione, dall’esigibilità dei diritti (non per un procedimento giudiziario apposito, ma già presenti, in una società inclusiva) e da una buona accessibilità di prodotti di mercato facilitanti, oltre che dalla complementarietà con i servizi sociosanitari con competenze specifiche.
Queste annotazioni dovrebbero indurre a pensare che un buon accompagnamento verso il progetto di vita (la vita indipendente) di persone con bisogni speciali può avere ricadute fondamentali anche per chi si ritiene con bisogni normali. Chi è attento alle risorse economiche dovrebbe sapere che in questo caso la spesa può essere un buon investimento».

La copertina di uno dei tanti libri curati da Andrea Canevaro, quest'ultimo nel 2007, in occasione del trentennale dall'avvio del processo di integrazione scolastica in ItaliaCosa potremo quindi chiedere al Ministero dell’Istruzione? Quali le proposte da sottoporre ai funzionari ministeriali per garantire una migliore qualità dell’inclusione scolastica?
«Non chiedo a chi ha dimostrato di non voler sapere. Mi dispiace dirlo, ma l’unica cosa che vorrei chiedere è di farsi da parte».

E agli operatori del mondo della scuola cosa possiamo chiedere?
«Di continuare a vivere una passione con professionalità».

E alle famiglie?
«Di avere la pazienza, la tenacia, di trovare alleati negli operatori».

Uno degli interventi (unico in Italia) svolto dallo Sportello Integrazione di Scuole Aperte dell’Assessorato all’Istruzione della Regione Campania, è stato il monitoraggio sul sovraffollamento delle classi in presenza di alunni con disabilità. I dati inviatici dalle scuole sono a dir poco drammatici. Come possiamo definire l’offerta formativa delle scuole in queste situazioni e cosa possono fare le scuole stesse per evitare tutto ciò?
«È, palesemente, un’offerta illegale indotta dal Ministro».

Lei ha dichiarato che oggi uno dei rischi che corriamo è quello «di vivere nelle nostre scuole una falsa integrazione o peggio ancora un’integrazione a pagamento». Come si potrebbe, secondo lei, evitare tutto ciò e strutturare invece una scuola inclusiva, di effettiva qualità, basata sulla valorizzazione della diversità?
«Cercherei di avere più attenzioni per i profili professionali. Le necessità organizzative dei servizi sono indiscutibili. Misurare i bisogni e quantificare le risposte è necessario. È chiaro che non si possono non fare i conti. Ma la logica organizzativa può rispondere in maniera equa alle esigenze delle risorse economiche (con limiti) e alle esigenze dei soggetti? Si possono tenere in equilibrio le necessità che portano a oggettivare i bisogni e quelle che portano a identificarsi con chi vive i bisogni?
Potremmo cercare di semplificare il problema utilizzando strumenti di rilevazione dei bisogni e affidandone l’impiego a chi vive la quotidianità accanto ai soggetti con bisogni speciali. Questo è un modo di arrivare a una soluzione equilibrata, ma non mette al riparo da rischi. I rischi maggiori, come già accennato, sono di due ordini: da una parte l’oggettivazione del bisogno di un individuo, che non è più “il signor Filippo”, ma “un’appendicite”; dall’altra parte l’identificazione con l’altro, con il “signor Filippo”. Nel primo ordine di rischi troviamo la categorizzazione e la sua ossessione. Una larga maggioranza di studiosi e di operatori sottoscrive con facilità la dichiarazione circa la relativa irrealtà delle distinzioni in categorie. All’interno della categoria “ritardo mentale”, ad esempio, vi sono tali e tante variabili e differenze individuali, da rendere scarsamente significativa la categoria stessa. Ma anche la categoria “sindrome di Down” può dar luogo alle stesse considerazioni.
Si potrebbe dunque concludere che le categorie sono dannose e inutili? Sarebbe una semplificazione frettolosa e sbagliata. È vero, però, che vi sono usi delle categorie che sono frettolosi e sbagliati: è sbagliato l’uso delle categorie per determinare una lettura dei bisogni – che risulterebbe anche frettolosa e per questo probabilmente apprezzata da chi ritiene che gli accertamenti dei bisogni siano “costi passivi”; è sbagliato l’uso delle categorie per decidere risposte adeguate. Se queste infatti sono tarate su finte omogeneità, non potranno essere adeguate e costituiranno un sistema violento; e ancora, è sbagliato l’uso delle categorie per stabilire le professionalità da impegnare.
Ragazzo con disabilità insieme a compagno di scuolaLe categorie sono utili invece per aprire delle differenze che si trovano sotto la stessa dizione. Si pensi ad esempio a “diagnosi di spettro autistico” e alla straordinaria varietà di caratteristiche che contiene questa indicazione. Sono poi utili per stabilire reti informative che permettano il miglioramento della qualità della vita dei soggetti con bisogni speciali. Questo è tanto più importante per le sindromi rare, che non possono creare competenze sulla base dell’esperienza del singolo operatore. Paradossalmente, infine, le categorie sono utili per essere messe in discussione. Scoprire l’inadeguatezza di un sistema di classificazione è l’inevitabile premessa della rimozione degli ostacoli per la nostra comprensione. Nello stesso tempo è il modo per ricordarci che le nostre possibilità di comprensione sono relative al tempo storico che viviamo.
Importante è quindi:
– considerare l’accertamento dei bisogni come tempo costruttivo e quindi le spese che lo sostengono come investimento;
– attribuire le necessità organizzative dei servizi (misurare i bisogni e quantificare le risposte) agli stessi Educatori Sociali, prevedendo uno sviluppo di carriera di questa figura professionale che solitamente – se occupa un ruolo dirigenziale – lo fa cambiando la propria identità professionale e sforzandosi di identificarsi con professioni manageriali;
– evitare di creare gerarchie di servizi su presunte classifiche di maggiore o minore gravità delle condizioni e per questo avere modelli di riferimento per le risposte ai bisogni rilevati sul tipo della proposta di Booth e Ainscow [T. Booth e M. Ainscow, L’Index per l’inclusione. Promuovere l’apprendimento e la partecipazione nella scuola, Spini di Gardolo, Trento, Erickson, 2008, N.d.R.] che hanno elaborato un’analisi partecipata e di automiglioramento dell’inclusione (scolastica) di chi presenta bisogni speciali.
Ianes [D. Ianes, Bisogni Educativi Speciali e inclusione, Spini di Gardolo, Trento, Erickson, 2005, N.d.R.] ha illustrato come sia nato il concetto di Bisogno Educativo Speciale e come lo si possa fondare sull’ICF [la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Salute e della Disabilità prodotta nel 2001 daall’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.]. È il segno di una prospettiva che vuole superare il parametro biomedico, andando oltre le categorie di disabilità e occupandosi di tanti che vivono diverse difficoltà.
L’Index di Booth e Ainscow “è una risorsa di sostegno allo sviluppo inclusivo” e può costituire un ottimo modello di riferimento per un lavoro analogo prodotto da Educatori Sociali. L’attuale lettura dei bisogni, invece, attribuita secondo una logica di divisione del lavoro, impone un modello inadeguato il cui costo risulta inevitabilmente poco produttivo.
Per quanto poi riguarda i rischi derivati dall’altro ordine di problemi (l’identificazione con l’altro), essi sono speculari a quelli già esposti riguardo all’oggettivazione del bisogno di un individuo. In particolare:
– può accadere che chi è Educatore Sociale ritenga che le necessità organizzative dei servizi (misurare i bisogni e quantificare le risposte) siano – come tutte le incombenze amministrative – attività che esulano dal proprio impegno. La conseguenza va nel rinforzo di quella divisione del lavoro che è all’origine dell’inadeguatezza del sistema;
– l’identificazione con l’altro come compito esclusivo di un Educatore Sociale logora (burn out);
– l’identificazione con l’altro può isolare e impedire di “leggere” i bisogni includendoli in una “lettura” sociale che permetta di mettere davvero in crisi la “categorizzazione” cui storicamente ci si riferisce. Le risposte individualizzate a bisogni individuali possono non essere per “categorie” e non essere individuali (isolate), ma intrecciare diversi individui in un’eterogeneità compatibile. Il bisogno di avere un’abitazione, ad esempio, non riguarda una categoria (“ritardo mentale”), ma individui non “categorizzabili”. Se la risposta è tale da esigere una certa prossimalità, la stessa risposta deve tener conto della compatibilità (eterogeneità compatibile)».

Qual è il suo parere sulla riforma in corso per la formazione iniziale e sull’obbligatorietà di tutto il personale della scuola?
«Non si può parlare di riforma. È un cambiamento imposto dalla contabilità ottusa, che non sa fare investimenti».

Scuole Aperte è alla sua quarta edizione e in questi quattro anni ha modificato la modalità di fare scuola della maggior parte degli istituti nella Regione Campania. Anche quest’anno, ad esempio (2009-2010), 12 milioni e 500.000 euro sono stati investiti per le 478 scuole che a loro volta hanno coinvolto 1.506 partners per garantire l’apertura e la fruibilità a tutti, nessuno escluso, alle attività laboratoriali programmate dalle stesse scuole in orario extracurricolare. Anno dopo anno è aumentato l’impegno delle scuole per favorire la partecipazione dei ragazzi con disabilità, con il risultato che negli anni scolastici 2007-2009, circa 800 ragazzi e adulti con disabilità hanno frequentato le varie attività di Scuole Aperte (si pensi al Premio Europeo Handinnov 2008, ricevuto a Parigi [se ne legga nel nostro sito cliccando qui, N.d.R.]). Inoltre, nell’ultimo bando, è stato chiesto esplicitamente che le attività extracurricolari, dove possibile, vengano svolte in coerenza con gli obiettivi previsti dal Piano Educativo Individulizzato (PEI) e con riferimento ai criteri stabiliti dalla Convenzione ONU sui diritti delle Persone con Disabilità. Alla luce di quanto già svolto, le chiedo: quale potrebbe essere il ruolo della pedagogia speciale nelle attività laboratoriali di Scuole Aperte, per migliorare e favorire il processo inclusivo e formativo dei ragazzi con disabilità per la definizione del progetto di vita?
Bimbo in carrozzina fotografto di spalle mentre entra a scuola«Occorre ripensare l’autonomia. E occorre partire dalla necessità di sfuggire al rapporto diadico [ovvero quando aspetti del proprio Sé vengono incarnati e mantenuti dall’altro, N.d.R.]. Che non vogliamo demonizzare. Esso è presente nella vita dell’essere umano in alcune fasi dell’esistenza. Sostanzialmente alla nascita, nella vita di coppia, nei tempi di malattia (ma non necessariamente) e nell’età avanzata (ma non necessariamente). A noi interessa capire quando esso ha un carattere evolutivo e quando invece condiziona staticamente una situazione.
Sono stati individuati diversi stili del cosiddetto coping diadico (Guy Bodenmann, 2005). Il coping diadico supportivo strumentale, che consiste nel tentativo di un partner di aiutare l’altro a riformulare il problema o a guardare la situazione da un’altra prospettiva; il coping diadico supportivo emotivo, che si manifesta mostrando vicinanza emotiva o comprensione empatica al partner; il coping diadico negativo, che comprende comportamenti ostili, ambivalenti o superficiali che accompagnano il supporto: ovvero il partner che dovrebbe fornire supporto lo fa in modo negativo, in quanto l’aiuto al partner è squalificato da critiche (spesso a livello preverbale e non verbale) (R. Iafrate, A. Bertoni, D. Barni, S. Donato, 2009).
Il rapporto diadico ha una dinamica positiva se è evolutivo, aprendosi all’impiego di mediatori e quindi al rapporto triadico, che potremmo anche chiamare rapporto plurale. A volte si ritiene che le persone con una disabilità abbiano bisogno di vivere continuamente nel rapporto diadico. E a volte è così. Ma anche questo aspetto non ha un valore assoluto e potrebbe essere utile capire come sono cambiate le condizioni di crescita e di vita ad esempio di chi è cieco. Dobbiamo considerare infatti che il nostro cervello non è una “tabula rasa” in cui si accumulano delle costruzioni culturali. È un organo fortemente strutturato che realizza il nuovo utilizzando il vecchio. Per apprendere nuove competenze, ricicliamo i nostri vecchi circuiti cerebrali di primati, nella misura in cui questi tollerano un minimo di cambiamenti.
Il rapporto diadico propone, o vorrebbe proporre, la garanzia di una stabilità senza cambiamenti. Ma conviene? Certamente è necessario in alcune fasi della vita. Chi cresce essendo cieco, deve avere un periodo di sicuro riferimento in un rapporto diadico. Ma se questo si prolunga eccessivamente, evitando cambiamenti, può danneggiare il processo di crescita».

Nel ringraziarla per la sua disponibilità, chiuderei questa intervista con la pubblicazione – se me lo permette – di una frase di Sergio Neri che le ho sentito pronunciare per la prima volta al Convegno del 2003 di Rimini, e che non ho mai più dimenticato, con la quale lei ha chiuso il suo intervento in plenaria nell’ultima edizione del 2009: «Il problema è che per fare l’educatore devi inventare sempre nuovi appuntamenti, nuove attese… ma se non hai un progetto, anche un progettino piccolo, è un guaio…» (Sergio Neri). (V.B.)

*Scienziato sociale, Andrea Canevaro ha speso la sua carriera accademica nell’ambito della Pedagogia, con particolare attenzione verso i temi della devianza e della disabilità. Inizia la sua formazione umanistica nella Facoltà di Lettere e Filosofia, per poi proseguire i suoi studi in Francia, presso l’Università di Lyon 2, dove ha la possibilità di frequentare i corsi in Pedagogia Speciale di Claude Kohler.
Nel 1973 ha inizio la sua carriera universitaria presso l’Università di Bologna, la quale gli affiderà l’insegnamento di Pedagogia Speciale due anni dopo. La professione accademica conosce negli anni a seguire un’irresistibile scalata, fino a portarlo a divenire, nel 1983, presidente del Corso di Laurea in Pedagogia e dal 1987 al 1993 (e di nuovo nel 1996), direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione.
La brillante carriera accademica di Canevaro è testimone del suo notevole contributo offerto alla studio della Pedagogia Speciale: in particolare sui temi relativi alla formazione di educatori professionali per giovani disabili e sul mondo della disabilità affrontata attraverso il tema del’inclusione, come diritto alla ricerca e al riconoscimento del valore della diversità. Numerose sono le sue pubblicazioni su tali questioni, così come le collaborazioni con case editrici e con riviste nazionali e internazionali del settore.
Tra le sue opere di maggiore interesse:
Educazione e handicappati (1982); L’educazione degli handicappati. Dai primi tentativi alla pedagogia moderna (1988); La relazione di aiuto. L’incontro con l’altro nelle professioni educative (1999); Pedagogia speciale. La riduzione dell’handicap (1999); Le logiche del confine e del sentiero. Una pedagogia dell’inclusione (per tutti, disabili inclusi) (2006).

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