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Per identificarsi con l’altro

L'uscita con gli studenti di architettura, in Piazzale Roma a Venezia, condotta da Silene Thiella, presidente dell'ANIEP di Vicenza (Sezione di Schio)Ci siamo già occupati delle meritorie iniziative promosse negli anni scorsi dall’ANIEP di Vicenza – Sede di Schio (Associazione Nazionale per la Promozione e la Difesa dei Diritti Civili e Sociali degli Handicappati), quale ad esempio il premio di laurea istituito in collaborazione con l’Università IUAV di Venezia, allo scopo di promuovere la ricerca di soluzioni di accessibilità urbanistiche e territoriali (ne avevamo intervistato anche la vincitrice, Laura Cunico, nel servizio intitolato Gli architetti che vorremmo, disponibile cliccando qui).
Attualmente l’associazione vicentina – sempre in collaborazione con l’ateneo veneziano di architettura – è impegnata in un
corso intensivo di formazione sul design for all (“progettazione per tutti”), «rivolto – come spiega Silene Thiella, neuropsichiatra infantile e presidente dell’ANIEP berica – a una sessantina di studenti dei primi tre anni, allo scopo di sensibilizzarli alla progettazione senza barriere architettoniche, mentali e culturali».
Tra i vari momenti previsti all’interno del progetto – approvato con delibera di contributo finanziario da parte della Regione Veneto («siamo in attesa dell’assegnazione del contributo per completare l’opera!», sottolinea Thiella) – vi è stata un’interessante uscita in Piazzale Roma, il terminal veneziano degli autoveicoli, con gli studenti che hanno anche sperimentato la mobilità in carrozzina o con gli occhi bendati, «esperienza molto coinvolgente – racconta la presidente dell’ANIEP di Vicenza – nella quale gli studenti hanno mostrato una grande capacità identificatoria». A guidarli era la stessa Silene Thiella, coadiuvata dal terapista occupazionale Gianfrancesco Minetto, dal presidente di RP Triveneto (Associazione Retinite Pigmentosa) Roberto Rabito e dai docenti dello IUAV.
Pure su Piazzale Roma, poi, era centrato il tema
Welcome to Venice, sviluppato dagli studenti in quindici progetti dai titoli vari e fantasiosi, ricchi di spunti e di idee.
Detto infine della consulenza tecnica al progetto degli architetti Valeria Tatano (docente IUAV) e Stefano Maurizio, non resta che lasciare spazio alla relazione pronunciata da Silene Thiella il 2 luglio scorso allo IUAV, sul tema Dalla relazione manipolatoria alla relazione identificatoria. (S.B.)

Ad ogni primo incontro con studenti, medici specializzandi e nei corsi per operatori sociosanitari, affronto il tema della relazione manipolatoria e della relazione identificatoria. Ora mi chiederete «perché ci parla di relazione? Cosa si intende per relazione manipolatoria e per relazione identificatoria? Noi non siamo operatori sanitari». Ma forse sociali sì e a me sembra importante parlarvi di questo tipo di comunicazione, della comunicazione secondo l’ottica psicodinamica.

Vengo dagli studi di medicina e ai medici, almeno ai miei tempi, non si parlava certo di relazione, né tanto meno di identificazione. Eravamo i “possessori della scienza” e potevamo – anzi dovevamo – dare regole, norme, prendere decisioni senza tanto consultare il paziente; l’attenzione alla relazione c’era soltanto se quel medico era per naturale predisposizione e cultura attento all’altro come persona.
Non so se nel vostro campo le cose andavano diversamente… forse non tanto. Il progetto, l’opera architettonica sembrava dover soddisfare – oltre a criteri tecnici di costruzione e a vincoli paesaggistici – a criteri estetici, come se la creatività dell’autore potesse liberarsi senza vincolo alcuno. E questo, fra l’altro, è l’aspetto affascinante dell’architettura, che la mette a ragione nell’ambito delle arti più interessanti. Per cui l’aspetto della fruibilità, dell’accessibilità alle persone passava in seconda linea o addirittura nemmeno veniva preso in considerazione.

L'inaccessibile «Ponte della Costituzione» a Venezia, progettato dal celebre architetto spagnolo Santiago Calatrava, ovvero uno dei più clamorosi esempi contemporanei di «mancato riconoscimento dei bisogni dell'altro»E oggi? Le cose sono cambiate, e di molto, nel sociale. L’attenzione alla persona e al suo benessere, salute, dignità, realizzazione sono al primo posto, la legislazione si è adeguata, sono state elaborate le norme sulle barriere architettoniche, sull’inserimento scolastico e lavorativo delle persone disabili, sulla cura, la riabilitazione e la prevenzione… E tuttavia mi sembra di capire che, pur con tutta l’evoluzione che ha subito la cultura nel sociale, nonostante l’attenzione alla persona e la normativa vigente sulle barriere architettoniche, càpita che ancora vengano costruite strutture  bellissime e costosissime inaccessibili. Vedasi il Ponte di Calatrava, senza voler fare polemiche.
Si tratta di un’opera molto bella, ma con tutti i problemi che sappiamo. Perché càpita questo? Perché il professionista – che qui possiamo chiamare artista – non si è messo nei panni degli altri, di tutta quella fascia di umanità che circola sulle nostre strade? Perché coloro che hanno commissionato l’opera non hanno messo dei “paletti”, le condizioni di accessibilità da cui oggi non si può più prescindere?
Voglio pensare che le cose siano andate così, in buona fede. Ognuno forse dava per scontato l’aspetto dell’accessibilità e puntava a fare un “bel ponte”, degno di questa bella e unica città, una struttura moderna, all’avanguardia, degna di Venezia.

Venezia è tutto un ponte e chi pensa mai che il ponte di Rialto sia criticabile perché non è accessibile a persone in sedia a rotelle o a donne con carrozzine di bambini? D’altra parte, fino a cinquant’anni fa gli anziani erano pochi e i disabili se ne stavano “tranquilli” in casa o in qualche istituto.
In questi ultimi trenta-quaranta anni la popolazione è cambiata, molti gli anziani, i disabili, la fascia di persone che ha a che fare con le barriere si aggira sul 45% della popolazione, ma, soprattutto, si è passati da una cultura manipolatoria a una identificatoria, una cultura attenta alla persona, ai suoi bisogni e ai suoi desideri.
Nella recente Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (Legge dello Stato Italiano n. 18/09), si parla di diritto all’inclusione per tutti, di diritto alla vita indipendente, non solo di integrazione, ma di inclusione a tutti gli effetti e per tutti. E – aggiungo – non solo diritti e bisogni, ma anche desideri da accogliere, rispettare.
In alcuni ambienti è difficile recepire e accettare questa dimensione sociale nuova. Mettersi nei panni degli altri non è sempre facile, forse non sempre possibile, ma è l’unico modo per capire l’altro e operare in modo da non prevaricare e non escludere.

Un'altra immagine relativa all'uscita in Piazzale Roma a Venezia, con gli studenti messi in condizione di non vedereL’argomento rientra nel grande capitolo della Comunicazione, su cosa significa comunicare, sulle varie modalità di comunicazione (comunicazione cosciente, non cosciente, verbale, non verbale), per poi calarsi nello specifico della:
Relazione manipolatoria

– non tener conto
del punto di vista dell’altro, ma solo del proprio, magari con l’intenzione di fare qualcosa per il “bene” dell’altro;
– decidere senza tener conto dei bisogni o dei desideri dell’altro (anche le persone disabili sono soggetto di desidero come tutti gli esseri umani).

Relazione identificatoria
Ovvero la capacità di mettersi nei panni dell’altro, di riconoscere il bisogno dell’altro senza perdere la propria identità. L’identificazione è il momento necessario per cogliere il significato di un problema, l’uscita dall’identificazione è necessaria per recuperare la propria identità e agire in modo utile. Possiamo quindi vedere tre momenti della relazione identificatoria:
1) mettersi al posto dell’altro;
2) recuperare la propria identità, la propria esperienza professionale;
3) intervenire o agire secondo le proprie competenze: si dice o si fa qualcosa.

Contesto di ascolto
Per attuare una modalità identificatoria è importante il contesto; occorre cioè creare un contesto di ascolto che consenta di mettersi “dentro l’altro”, al suo posto. Il medico che parla al paziente in mezzo al corridoio o l’architetto che parla col cliente in mezzo al cantiere avranno difficoltà a instaurare una relazione identificatoria.

Ostacoli alla relazione identificatoria
Alcune persone hanno difficoltà a instaurare una relazione identificatoria per vari motivi:
1) rifiuto di identificarsi per evitare esperienze personali dolorose che la situazione con l’altro fa rivivere;
2) incapacità di uscire dall’identificazione.

L’intervento manipolatorio in alcune situazioni non è necessariamente da escludersi. Ad esempio:
– quando il chirurgo deve fare un’operazione, attua un intervento manipolatorio;
– se una persona ha ingoiato una sostanza tossica, si deve attuare un intervento manipolatorio, cioè, nella fattispecie, una lavanda gastrica.
E tuttavia, nei rapporti con le persone che chiedono il nostro intervento, nei limiti del possibile e nei limiti delle nostre capacità di identificazione, la modalità identificatoria, non quella manipolatoria, appare la più indicata.

*Neuropsichiatra infantile; presidente dell’ANIEP di Vicenza – Sede di Schio (Associazione Nazionale per la Promozione e la Difesa dei Diritti Civili e Sociali degli Handicappati). Relazione pronunciata il 2 luglio 2010, presso lo IUAV (Istituto Universitario di Architettura di Venezia), dal titolo Dalla relazione manipolatoria alla relazione identificatoria.

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