«I tagli praticati alla spesa sociale dai governi europei, al fine di ridurre i disavanzi di bilancio, sono dolorosi dal punto di vista economico, ma rappresentano allo stesso modo un costo in termini di vite perdute». Lo ha scritto recentemente Paul Benkimoun*, sull’autorevole quotidiano francese «Le Monde», commentando uno studio pubblicato qualche mese fa dal «British Medical Journal» (lo si legga integralmente cliccando qui).
A condurre tale ricerca sono stati David Stuckler dell’Università di Oxford, Sanjay Basu del General Hospital di San Francisco e Martin McKee della London School of Hygiene and Tropical Medicine, i quali hanno sviluppato un modello matematico, basato sui dati delle variazioni della spesa sociale e della mortalità di quindici Paesi dell’Unione Europea dal 1980 al 2005 (fonte dei dati l’OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico). Qui per spesa sociale si intende, come da definizione della stessa OCSE, «l’erogazione, da parte di istituzioni pubbliche e private, di benefìci e contributi finanziari destinati a famiglie e individui, allo scopo di fornire loro un sostegno in presenza di circostanze che incidono negativamente sul loro benessere».
In ogni caso, dallo studio è emerso che ad ogni aumento di 100 dollari a persona (circa 91 euro) del Prodotto Interno Lordo (PIL), si associa in modo significativo una diminuzione dello 0,11% della mortalità, considerando qualsiasi causa di decesso. E tuttavia, a un equivalente aumento della spesa sociale, corrisponde un abbassamento della mortalità di ben sette volte maggiore (0,80%).
Va poi considerato che con un aumento di 100 dollari a persona della spesa sociale (spese sanitarie escluse), diminuiscono del 2,8% i decessi correlati all’alcool, dell’1,2% la mortalità dovuta a problemi cardiovascolari, dello 0,62% le morti per suicidio e del 4,34% quelle dovute alla tubercolosi. Di contro, a un aumento di 100 dollari a persona della spesa sanitaria consegue una diminuzione dello 0,82% della mortalità per cancro, dello 0,28 di quella per cause cardiovascolari e del 3,15% di quella per suicidio, mentre i decessi dovuti all’alcool e alla tubercolosi aumentano rispettivamente dello 0,97% e del 2,11%. «Un paradosso? – si chiede Benkimoun -, non proprio, in quanto queste due ultime cause di mortalità legate alla povertà sono molto più sensibili all’effetto protettivo della spesa sociale che a quello della spesa sanitaria». Nel caso dei decessi per cancro, infine, secondo gli autori dello studio non esiste una relazione plausibile a breve termine tra la salute e la spesa sociale.
I ricercatori concludono quindi affermando che «i programmi sanitari e sociali appaiono come le determinanti maggiori della salute futura della popolazione e questo dovrebbe essere preso in considerazione nell’ambito del dibattito economico in corso».
A commentare tutto ciò per Superando è Giampiero Griffo, membro dell’Esecutivo Mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International) e anche uno dei componenti della delegazione italiana che nel corso di molti anni ha contribuito all’elaborazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. (G.G.)
Gli esiti dello studio di Stuckler, Basu e McKee fanno emergere due considerazioni di base. La prima è che oggi nei Paesi ricchi di tutto il mondo si sta procedendo a un drastico taglio della spesa sociale, ritenendo che questa sia una condizione irrinunciabile per riuscire ad essere competitivi con Paesi emergenti quali la Cina, l’India o il Brasile ecc.
Il dibattito – quasi mai reso esplicito per la delicatezza dell’argomento – tira in ballo la corsa dei Paesi emergenti, che ottengono ogni anno incrementi di PIL significativi, rispetto agli “zero-virgola” registrati dai Paesi ricchi. L’elemento implicito è che i sistemi di welfare degli Stati industrializzati rappresentano un peso per lo sviluppo economico, rispetto a quegli Stati emergenti che non hanno welfare importanti. Si renderebbe quindi “necessario” tagliare i fondi in questo settore.
Questa ricerca ha dunque il merito di mettere in chiaro che è falso sostenere che a questi tagli non corrispondano delle pesanti conseguenze.
La seconda riflessione riguarda un altro aspetto, non certo di poco conto, e cioè il fatto che lo sviluppo non può basarsi solamente sullo sviluppo economico e quindi sul PIL.
L’economista e filosofo francese Serge Latouche – ponendosi insieme a molti altri il problema della sostenibilità dell’uso delle risorse mondiali e dei benefìci per tutti i popoli – ha riflettuto su questo tema, proponendo una valutazione dello sviluppo centrata su altri indicatori (benessere delle persone; servizi all’inclusione; sostenibilità ambientale ecc.), prevedendo per i Paesi ricchi anche una riduzione dello sviluppo economico legato all’incremento del PIL, a favore di altri elementi connessi alla qualità di vita delle persone.
Quanto delineato dalla ricerca, in realtà, andrebbe ulteriormente sviluppato, poiché viene fatta emergere solamente la correlazione tra investimenti nel sociale e mortalità. In realtà – seguendo l’approccio dell’economista indiano Amartya Sen [Premio Nobel per l’Economia nel 1998, N.d.R.] sulla cosiddetta capability, emerge che investire nel sostegno all’empowerment [“rafforzamento”, qui inteso in senso generale, N.d.R.] delle persone escluse e svantaggiate (donne, immigrati, persone con disabilità ecc.) ha una correlazione diretta con lo sviluppo. Infatti, è sempre più chiaro che negli ultimi decenni lo sviluppo economico centrato sul sistema capitalistico ha progressivamente incrementato il numero di persone escluse a cui gli Stati – particolarmente nell’Unione Europea – cercano di far fronte con varie forme di ammortizzatori sociali.
Una serie di studi e riflessioni più recenti hanno invece messo in evidenza che il sociale in senso lato non è avulso dallo sviluppo e anzi che lo sviluppo si fa con l’inclusione e non con l’esclusione. Quanto più si escludono le persone dai processi di cittadinanza e di sviluppo, tanto più la gente esclusa entra in una “spirale negativa”, fino al punto di incrementare anche le percentuali di mortalità. E quanto più le persone vengono escluse dalla società e dalla partecipazione alle decisioni che le riguardano, tanto più si producono effetti negativi. In tal modo, infatti, esse vengono percepite come un “peso economico”, a cui sono relegate proprio dai meccanismi di esclusione sociale, subendo, nello stesso tempo, pesanti violazioni dei loro diritti umani.
In effetti una cosa è chiara: le logiche di mercato non tutelano i diritti umani delle persone, anzi tendono a violarli continuamente. Non è un caso la pletora di autorità indipendenti – sulla privacy, sulla concorrenza ecc. – che cercano di mitigare le conseguenze derivanti dalla logica del profitto.
Nel secondo dopoguerra – con la nascita delle Nazioni Unite che si basavano sul rispetto dei diritti umani – si è avviata una globalizzazione dei diritti che ha visto entrare nell’ambito della tutela legale internazionale fasce di popolazione prima escluse (donne, bambini, immigrati, popoli etnici e persone con disabilità).
Dagli anni Ottanta del Novecento è andata poi crescendo la globalizzazione economica, che spesso cozza con quella dei diritti, addirittura mettendoli in discussione sulla base delle risorse disponibili. Vi sono ad esempio teorici americani, come Peter Singer, secondo i quali non solo i diritti dovrebbero dipendere dalla risorse disponibili, ma anche i beneficiari dei diritti stessi dovrebbero essere selezionati secondo parametri di convenienza della società, escludendo, per dirne una, le persone con disabilità intellettiva.
Appare evidente che tale impostazione preluderebbe a forme di eutanasia sociale non tanto diverse da quelle promosse dal regime nazista ed è anche per queste ragioni che è importante sottolineare come sviluppo e inclusione siano ormai un binomio inscindibile e che bisogna lavorare per far sì che questo venga percepito a livello internazionale come una necessità.
Pensiamo all’ormai “celebre” esternazione del ministro dell’Economia Tremonti, nell’estate scorsa, sui «2 milioni e 700.000 invalidi che rendono l’Italia non competitiva». In realtà il modello di welfare basato sulla cultura della protezione sociale – con lo sviluppo che crea persone escluse dalla società e lo Stato che interviene per mitigare gli effetti dell’esclusione, assistendole – è diventato ormai insostenibile. La Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità delle Nazioni Unite mette in evidenza proprio che i meccanismi di esclusione e discriminazione sono prodotti dalla stessa società, che “disabilita” una parte di se stessa.
Lo Stato, quindi, dovrebbe intervenire con un diverso criterio di giustizia, non più derivante da un modello medico della disabilità – in cui le persone con disabilità sono “incapaci e malate”, per cui hanno bisogno di essere assistite e curate – bensì da un modello basato sui diritti umani, in cui lo Stato interviene per sostenere l’inclusione sociale degli esclusi, attraverso interventi che rimuovano barriere, ostacoli e discriminazioni.
Se lo Stato offre un sostegno per lo sviluppo delle loro capacità e sostiene la loro capacitazione e abilitazione, quelle persone potranno partecipare attivamente alla società e saranno quindi “produttive”, pagheranno le tasse e così via. Ma se lo Stato invece taglia la spesa sociale e non dà nessun sostegno, quelle persone rimarranno escluse, discriminate, senza eguaglianza di pari opportunità e sarà proprio lo Stato ad averle fatte diventare “un peso”.
I due concetti innovativi – lo sviluppo inclusivo da un lato e dall’altro la già citata capability, cioè un intervento appropriato per dare a quelle persone un sostegno nel diventare Cittadini – hanno dietro di sé questa nuova idea di giustizia, molto differente ad esempio da quella del ministro Tremonti, che in maniera implicita sembra quasi sposare delle teorie di eutanasia sociale. Basti vedere in quale maniera truffaldina – sempre nell’estate scorsa – aveva accreditato l’idea di colpire i cosiddetti “falsi invalidi”, mentre invece riduceva le provvidenze alle persone che necessitavano di sostegni più intensi. Ed è proprio con questa logica che dal mese di giugno scorso le persone con disabilità sono colpite da provvedimenti governativi che le penalizzano nella scuola, nel mondo del lavoro, nelle provvidenze economiche.
Di fronte a tutto ciò brilla l’idea di giustizia scaturita dalla Convenzione ONU, ove si afferma che le persone devono essere rafforzate nella loro capacità (empowerment), incluse nella società e partecipare allo sviluppo come tutte le altre, decidendo sulla propria vita come tutti i Cittadini.
Un ulteriore interessante spunto proveniente dallo studio di Stuckler, Basu e McKee è la distinzione che viene fatta tra spese sanitarie e spese sociali. Rapportato alla disabilità, questo distinguo è fondamentale. Si verificano infatti situazioni in cui lo Stato finanzia spese sanitarie, senza che a volte ne risultino benefìci pratici. Basti pensare alla “riabilitazione perenne” di cui sono oggetto molte persone in condizioni di cronicità. Anche le recenti Linee Guida sulla Riabilitazione [è il Piano di Indirizzo per la Riabilitazione, recentemente illustrato dal Ministero della Salute, N.d.R.], invece di sposare i moderni concetti di abilitazione ed empowerment, che impregnano la Convenzione ONU, attivando ben altre azioni nel campo dei servizi sanitari, educativi, lavorativi e sociali, si fermano all’idea di giustizia del “curare e assistere”.
Se invece si sviluppassero servizi appropriati di sostegno all’inclusione, qualificando la spesa sociale, si creerebbero migliori condizioni di vita per tutte quelle persone e per la società nel suo complesso. Quindi la ricerca solleva in maniera indiretta una riflessione su quali interventi mettere in campo e in che maniera sostenerne la partecipazione nella società di quegli stessi gruppi di persone.
In questo studio la mortalità è uno degli indicatori, ma probabilmente se vi fossero anche degli indicatori di partecipazione e di empowerment, scopriremmo che quegli interventi porterebbero le persone a non essere assolutamente dei pesi, ma addirittura a diventare dei Cittadini attivi, pienamente partecipi della società.
Infine, è interessante notare come i tre ricercatori coinvolti in questo studio provengano da ambienti prettamente medici, sintomo importante, questo, del fatto che anche all’interno delle professioni mediche si sta arrivando a una riflessione più attenta. Forse, in tal senso, l’ICF [la Classificazione Internazionale sul Funzionamento, la Salute e la Disabilità, prodotta nel 2001 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.] e la Convenzione ONU stanno producendo anche nei ricercatori e negli operatori una lettura diversa, basata sul modello di disabilità centrata sul rispetto dei diritti umani, che finalmente inizia a produrre studi diversi. Purtroppo questa riflessione tocca ancora ben poco i nostri professionisti e men che mai i nostri decisori politici.
*Paul Benklmoun è una delle firme con maggiore esperienza in problemi sanitari e sociali del quotidiano francese «Le Monde». Tra i suoi articoli recentemente ripresi in Italia, segnaliamo ad esempio La grande truffa della “suina” (raggiungibile nel sito de «La Stampa», cliccando qui). Ha pubblicato anche il libro Morti senza ricetta. La salute come merce (Milano, Eleuthera, 2002).