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Cerebrolesioni acquisite: il significato di un participio

Bimbo con paralisi cerebrale infantile insieme al suo caneLa Terza Conferenza Nazionale di Consenso, promossa il 5 e 6 novembre a Salsomaggiore Terme (Parma) dalla SIMFER (Società Italiana di Medicina Fisica e Riabilitativa), con il titolo Buona pratica clinica nella riabilitazione ospedaliera delle persone con gravi cerebrolesioni acquisite (GCA) e il resoconto su tale appuntamento, proposto da «CorrieredellaSera.it» (lo si legga cliccando qui), ci stimolano qualche riflessione.

Nella lingua italiana, il participio passato, usato come aggettivo, denota una particolare attribuzione al sostantivo al quale è collegato. Nel campo delle cerebrolesioni si parla prevalentemente di “cerebrolesioni acquisite”*, termini con i quali si intende, ragionevolmente, che la cerebrolesione non esisteva “prima” e “di per sé”, ma che è intervenuta successivamente per una causa non connaturata.
Così dicendo, e confidando di non sbagliare, si può quindi pensare che esistano anche “cerebrolesioni non acquisite”. Ma quali sarebbero? Tutte le cerebrolesioni perinatali? Falso, almeno nei termini sovracitati. Se infatti non fosse intervenuta l’ipossia, il trauma da parto, il necessario cesareo mancato o tardivo, non vi sarebbe stata cerebrolesione. Tanto meno sono “cerebrolesioni non acquisite” quelle dell’età evolutiva, ove è meglio evidenziabile la causa esterna e accidentale.
Restano le cerebrolesioni derivanti da un non corretto sviluppo fetale, per cause genetiche o ignote, o da danni fetali per patologie materne. Ma pure qui sarebbe applicabile il termine “acquisite”, almeno nel significato ristretto che vi è stata una causa esterna al normale sviluppo cerebrale, che lo ha modificato, danneggiato o impedito.

E tuttavia, al di là di quanto detto, il vero problema è un altro: si dà cioè quasi l’impressione che per le cerebrolesioni “non acquisite” – e qui il termine sta a indicare davvero quelle neonatali, perinatali e dell’infanzia -, poco e mal censite, spesso considerate non stimabili sotto i sei anni di età, non vi sia granché da dire perché vi è poi poco da fare.
Certo, a suo tempo si è parlato e polemizzato abbastanza sulle Linee Guida per la Riabilitazione dei Bambini Affetti da Paralisi Cerebrale e Infantile di SIMFER e SINPIA (Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza), ma bisogna anche riconoscere che al di fuori dei settori strettamente specialistici, su questi argomenti regna un silenzio totale. Solo qualche servizio sensazionalistico in TV, qualche articolo episodico e spesso in cerca di folklore umano su settimanali e quotidiani: troppo poco!

E invece di questi argomenti e di questi problemi – del bambino, della sua famiglia e dei rapporti con il resto del mondo – bisognerebbe parlare e parlare con chiarezza e semplicità sulla stampa “normale”, trattando cioè non più dei cosiddetti “viaggi della speranza”, delle guarigioni miracolose (che non c’entrano nulla con la fede, fatto privato e riservato dell’umana natura), ma del diritto, difeso dalla legge, alla riabilitazione, alla protezione fiscale della famiglia e all’inclusione nella società.

*La spiegazione del perché si parla prevalentemente di cerebrolesioni acquisite è da ricercarsi probabilmente nel fatto che esse vengono ospedalizzate attraverso lunghi periodi di terapia e cura, prima in unità specializzate, successivamente in strutture residenziali idonee, quindi o in famiglia o in istituzioni assistenziali dedicate. Un lungo percorso, questo, che permette di disporre di una mole imponente di dati che solitamente non si ha, di contro, in relazione alle cerebrolesioni neonatali, perinatali o infantili, frequentemente, e per fortuna, non ospedalizzate.

**Federazione Italiana ABC (Associazione Bambini Cerebrolesi).

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