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Il sostegno e la forza della famiglia

Copertina di «Cammino da seduto», libro di Giovanni Paolo (Giampaolo) SandriRicordo negli anni della mia adolescenza di avere letto una frase significativa circa il ruolo della famiglia. La proferiva una persona anziana e disabile per la quale, da molti anni, il rapporto con i familiari era divenuto conflittuale; eppure era riuscito ad elaborare questa massima di vita che mi continuava a rimanere impressa. La frase recitava così: «Se ci si mette al di fuori della famiglia, mi sai dire, chi può mai aver voglia di aiutarci, sostenerci, capirci, sopportarci?» (Mario Rota).
Per molti anni non ho capito il senso di quella frase, soprattutto negli anni della realizzazione professionale e personale; negli anni in cui ritenevo che le mie scelte di vita potessero anche andare contro i desideri dei familiari. Poi, invece, negli ultimi tempi ne ho capito il significato profondo, forse perché, dopo essere stata per molto tempo in conflitto e lontana dai genitori, adesso ho iniziato a considerarli figure essenziali nella mia esistenza.
Ho avuto anche la fortuna di avere degli esempi concreti di attaccamento alla famiglia, ai genitori, al genitore sopravvissuto al morte del coniuge, ai genitori che invecchiano e che nonostante abbiano bisogno di noi, continuano ad essere colonne portanti nella nostra esistenza, come lo possono essere le stelle in una notte buia o il faro per una nave in balia del mare tempestoso, come spesso può essere la vita.
Con Giovanni Paolo Sandri, persona con disabilità che nel 2009 ha pubblicato il libro
Cammino da seduto. Ecco i miei passi (Cuneo, Primalpe, 2009), abbiamo parlato a lungo, in particolare proprio del significato profondo della relazione tra famiglia e individui [il nostro sito presentò a suo tempo tale opera, con l’articolo disponibile cliccando qui, ove si parlò anche della preziosa valenza del libro stesso, quale “chiave” utilizzata dall’Autore, per andare a raccontare la propria vita da persona con disabilità nelle scuole e nelle università, N.d.R.] (Dorotea Maria Guida)

Ci racconta, Giovanni, qualcosa di lei?
«Sono Giovanni Paolo Sandri (Giampaolo o Giampy) e sono nato a Cuneo il 4 ottobre 1970. Abito a Madonna dell’Olmo, frazione di Cuneo, vivo con mia madre in una bella casa con un grande giardino e un grosso gatto nero. Lavoro da sette anni presso gli uffici amministrativi dell’Azienda Ospedaliera Santa Croce e Carle di Cuneo. Mi interesso molto del mondo del sociale, a partire proprio dal Comune di Cuneo, dove con un gruppo di persone seguo l’evoluzione della lotta contro le barriere architettoniche. Questo gruppo, che non è però ancora diventato un’associazione, ha raggiunto buoni risultati, ad esempio raccogliendo quindicimila firme e ottenendo l’installazione di un ascensore nella stazione di Cuneo, per permettere a tutti l’accesso ai binari.
Da un paio d’anni partecipo al Progetto Pedagogia dei genitori a Savigliano, con il Consorzio Monviso Solidale, in qualità di supervisore. Si tratta di un’iniziativa che coinvolge i genitori di bambini e bambine con qualche forma di disabilità e cerco di aiutarli ad emergere, ad essere genitori il più possibile efficaci. Il gruppo è frequentato in media da quaranta persone.
Amo lo sport e ogni settimana frequento con regolarità la piscina. Da quest’anno ho cominciato a sciare. Adoro anche viaggiare e mi piace conoscere e confrontarmi con stili di vita di altre persone, anche molto diverse da me. Da quattro anni faccio parte dell’Associazione Oftal di Cuneo che si occupa principalmente del trasporto degli ammalati in pellegrinaggio a Lourdes ogni estate.
Al momento del parto tutto andò bene… crescevo sano e robusto come la maggior parte dei bimbi. Quando poi avevo all’incirca sei mesi, qualche giorno dopo avere fatto il vaccino dell’antipolio, mamma notò che tenevo la testa storta da una parte. Si avviarono i primi accertamenti dai quali emerse la diagnosi: grave tetraparesi spastica, con compromissione prevalente della parte destra del corpo. Papà e mamma mi hanno spiegato la tetraplegia quando già andavo a scuola, all’età di sette anni, dicendomi che avevo la parte sinistra del cervello con alcune cellule che purtroppo erano morte quando ero molto piccolo; cellule che erano preposte al movimento, cellule che purtroppo non si sarebbero più rigenerate; era necessario lavorare affinché le altre parti del mio cervello fossero in grado di sostituire parzialmente quello che queste non potevano fare. In questa maniera mi rendevo conto del perché fossi costretto tutte le settimane a passare ore e ore con delle dottoresse in strani ambulatori: erano sedute di fisioterapia che mi sarebbero state utili per acquisire il controllo delle funzionalità del mio corpo».

In quale contesto relazionale-familiare vive? E che importanza ha la sua famiglia o le persone che le sono care in un ambito così delicato come la disabilità?
«I miei genitori sono stati veramente i primi educatori della mia vita. Hanno iniziato mille battaglie con me e mi hanno trasmesso la voglia di lottare per i miei diritti. Mi sono sempre sentito parte integrante della famiglia, sono stato ai loro occhi un figlio presente, a cui non hanno mai nascosto nulla, né il bello, né il brutto. La mia disabilità non è mai stata motivo di particolari privilegi, hanno saputo anche dirmi di no quando ce n’era bisogno, hanno saputo educarmi come figlio. Il non sostituirsi a me, il lasciarmi provare, il lasciarmi soffrire, il lasciarmi vivere è stato un grande sforzo per loro. Allo stesso tempo si sono sempre adoperati, senza mai stancarsi, nell’aiutarmi ad essere in grado di fare le stesse esperienze che facevano gli altri bambini. La mia disabilità non è mai stata per loro una giustificazione.
Ricordo mamma che chiedeva agli insegnanti di non favorirmi, di trattarmi come gli altri, di sgridarmi al bisogno, di essere dinanzi a me limpidi e decisi al di là delle mie difficoltà. Papà e mamma sapevano trasmettere alle persone la loro naturalezza, semplicità e schiettezza; aiutavano gli altri a volermi bene come bimbo, come essere bisognoso di amore e protezione; si ponevano come “mediatori”, in modo tale che le resistenze che il mio handicap poteva procurare avessero la possibilità di sciogliersi. Durante le scuole elementari si adoperarono molto per conoscere e frequentare famiglie di miei compagni; diventava così naturale trovarsi anche al di fuori della scuola. Il capriccio non aveva spazio, ma le vere esigenze erano sostenute e aiutate. Ricordo l’impegno di mio padre, alla mia richiesta di avere una bicicletta, nel trovarne una a tre ruote che mi permettesse di muovermi come gli altri bambini. Famiglia con disabilitàOgni bambino disabile avrebbe bisogno dei genitori che ho avuto io: persone calde e affettuose, tenere e vicine; ma anche ferme e determinate a darmi il giusto, la mia parte.
Quando sono nato, in mamma e papà è cresciuta la curiosità nei confronti della tipologia del mio handicap… si sono adoperati alla ricerca di manuali per “studiarmi” e “capirmi”… Dopo un po’ di tempo, però, tutti e due si sono resi conto che quello non era il modo giusto per approcciarsi a me, hanno ritirato i libri e hanno iniziato a volermi bene, concretamente nei piccoli gesti di tutti i giorni. Avevano un occhio attento alla teoria, ma lo sguardo era fisso sul loro figlio portatore di amore. Hanno dato forza e fiducia alla loro genitorialità e questo loro sincero amore mi ha permesso di sentirmi accettato semplicemente per il fatto di essere figlio.
Mamma e papà hanno speso mille energie per aiutarmi, non si sono mai demoralizzati e le mie conquiste erano lo slancio e la gratificazione per i loro sacrifici. In casa c’era armonia; avevo una stanza colorata e c’era molta attenzione rivolta ai particolari: gli angoli erano smussati, l’affetto e il calore costanti. “Non perché sei disabile hai dei diritti in più”, era il motto dei miei, non volevano scuse, non volevano educarmi alla prevaricazione; mi hanno insegnato a guadagnarmi le cose, a sudare per ottenerle.
Ho molti amici che mi vogliono bene, un lavoro e mille interessi… tutto questo è nato grazie al loro amore. Nella loro fiducia estrema, hanno tenuto salda la certezza che avrei potuto essere protagonista della mia vita e della vita di altre persone».

Crede che alcuni valori, come il senso della famiglia, dell’appartenenza si stiano perdendo?
«La fiducia è un dono che i genitori, vivendola per primi, trasmettono al figlio, che a sua volta, avendola respirata e imparata, può viverla per se stesso e per gli altri.
Oggi si sente molto parlare di crisi d’identità, dovuta a più fattori, che possono essere il non sentirsi di appartenere a una famiglia, come il sentirsi solo perché non seguito, non coinvolto, non preso in considerazione; ma in quanti casi emerge l’esatto contrario? Vale a dire che una delle priorità della famiglia è proprio coltivare e rafforzare la propria identità troppe volte messa a rischio da fattori esterni, per cui va difesa, tutelata e protetta.
Per una persona disabile, la propria identità è troppo spesso attaccata, perché essendo una persona che ha bisogno di aiuti esterni, dipende da persone che – al di fuori della famiglia – sono preposte a dare servizi o a fornire mezzi attraverso i quali lo stesso disabile possa vivere meglio. Peccato che troppe volte queste persone, forse anche involontariamente, siccome ti forniscono un servizio, si sentano in diritto di essere in qualche modo “padrone” su di te e quindi ti tolgano l’identità.
Papà e mamma, col loro vissuto, per come vivono la quotidianità, per la loro semplicità fatta di concretezza e non di teoria, trasmettono a noi figli la propria identità, che a nostra volta abbiamo la responsabilità di vivere e portare avanti. Con maggiore frequenza sento dire, soprattutto dai giovani, “io non me la sento di mettere al mondo dei figli, perché al giorno d’oggi è una responsabilità troppo grande”. È un’affermazione che porta con sé una tristezza infinita».

Quale può essere un messaggio da dare affinché questa culla di relazioni familiari non si sgretoli sempre di più?
«”Non c’è speranza senza paura, né paura senza speranza”: sono parole di Karol Wojtyla, papa Giovanni Paolo II. La speranza non è dunque una chimera né un rifugio dalla realtà, proprio perché “sperare è imparare a vedere ciò che è veramente amabile e desiderabile dentro l’apparente banalità quotidiana, persino dentro la contraddizione quale può sembrare la disabilità. Sperare è intravedere nel presente il futuro di ogni cosa». La speranza è attuale, è possibile nella vita di ognuno di noi e intorno a noi. La speranza accade nella vita di ciascuno, innanzitutto come sguardo nuovo sulle persone più vicine. Anche la speranza, però, va tradotta, declinata dentro la vita concreta, le scelte quotidiane, i comportamenti e i desideri di ciascuno. Solo così ci aiuta a guardare sempre avanti, a superare le difficoltà e le umiliazioni, perché diventa promessa e premessa di giustizia e cambiamento. Un “non ancora” che ci impone coerenze già nel presente: la speranza è anche responsabilità e scelta nell’oggi e per l’oggi. A ogni disperazione corrisponde una speranza negata.
Queste sono alcune riflessioni lette tra le righe delle “mamme profetesse” che in questi anni mi raccontano i loro figli e la speranza maggiore è il constatare che grazie all’amore e alla forza dell’intera vita di queste mamme, la speranza è un ingranaggio del motore della vita grazie al quale la vita è vita da gustare e vivere, e non c’entra nulla con l’illusione. Povera gente chi crede che le famiglie che hanno figli con disabilità vivano grazie alle illusioni: non hanno ancora fatto esperienza della speranza che sgorga da un amore. La speranza è così vera da essere un miracolo – proprio come una nascita – e nessuno può annientarla, ma sarebbe così bello che anche i più pessimisti, leggendo, prendessero voglia di impararla per gustare bene la vita. La speranza richiede impegno, molti non ce l’hanno e non riescono a darla perché temono di perderla nel darla.
Che cos’è per me la speranza? È l’avere respirato e l’essermi nutrito da mamma e papà della speranza che da sempre hanno messo al centro della nostra famiglia, dalla speranza che insieme potevamo fare molto e raggiungere quella serenità che in molti hanno cercato di oscurare; ed è anche la speranza dei miei amici che con la loro stessa vita mi esprimono, dicendomi e facendomi sperimentare che con la speranza tutto è possibile, e sperano con me e per me, condividendo tanto della loro vita, capaci di assumersi quelle responsabilità, che talvolta includono sacrifici, ma che sempre mirano a dare completezza vera e concreta alla stessa vita.
A quasi due ani dall’uscita del mio libro Cammino da seduto. Ecco i miei passi, ascoltando e leggendo le riflessioni di molti, incontrando molte persone alle varie presentazioni, si fa sempre più forte e concreta in me la voglia e la necessità di mettere nero su bianco una sorta di progetto che chiamo Camminiamo la vita!».

Giovanni Paolo Sandri ci invita dunque a riflettere sul ruolo che la famiglia e i genitori possono avere sulle nostre esistenze sempre più complicate; e una riflessione più di tutte la sento mia, ovvero quella di non metterci mai al di fuori della famiglia poiché solo in tale ambito riusciremo a trovare la giusta forza e il giusto equilibrio nell’affrontare i problemi della nostra vita.

*Servizio realizzato per conto dell’Associazione Prodigio di Trento (con il titolo La Famiglia sostegno e forza per gli individui), qui ripreso, con alcuni riadattamenti, per gentile concessione.

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