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Tutto questo nel silenzio più totale

Mezza lunaNelle scorse settimane, si è parlato molto – anche su queste pagine – di “disabilità gravissima”, ovvero di situazioni che “necessitano di maggiori sostegni” o ancora di “particolari e intensi supporti”. Nel tentativo di favorire un dibattito che fosse il più ricco e argomentato possibile, abbiamo dato spazio a opinioni anche spesso divergenti tra di loro (si veda in tal senso l’elenco di testi che riportiamo in calce).
Oggi continuiamo a farlo, con il testo di Chiara Bonanno Madussi, che grazie alla sentita testimonianza della sua situazione personale e a quella dei componenti di
Un Passo Avanti, l’Associazione Genitori di Bambini Cerebrolesi di cui è referente per il Lazio, fornisce certamente un ulteriore, prezioso contributo di chiarezza sulle esigenze e le aspettative di quelle famiglie che vivono situazioni di “disabilità estrema”. Bonanno Madussi è anche coautrice del libro uscito nel 2007, Mio figlio ha le ali. Storie di quotidiana disabilità (Erickson, 2007), del quale il nostro sito si è a suo tempo ampiamente occupato (se ne legga cliccando qui).

Quella di “disabilità gravissima” è una condizione di emergenza assistenziale che può durare da qualche settimana fino ad alcuni anni (in rari casi anche qualche decina di anni). L’emergenza assistenziale riguarda in sostanza l’offrire un complesso supporto di assistenza specialistica (medica, infermieristica e terapeutica), di macchinari (respiratore, aspiratore, saturimetro, PEG [gastrostomia endoscopica percutanea, N.d.R.] ecc.), e umana.
Su quest’ultima mi vorrei concentrare maggiormente perché in una condizione di domiciliarità questo supporto viene generalmente affidato – e nella totalità – al parente caregiver, che può sostenerlo fisicamente solo per un breve periodo, in quanto richiede una vigilanza “attiva” e “continua” in tutte le ventiquattr’ore.
Provo a chiarire meglio. I criteri, a mio giudizio, che individuano l’estrema gravità della condizione riguardano la necessità di non essere in grado di compiere atti fisiologici indispensabili alla sopravvivenza (respirare, mangiare, muoversi ecc.), senza un supporto umano specializzato. Nella terminalità, che dura da pochi giorni a qualche settimana, in genere i parenti si organizzano con turnazioni in proprio e/o con più supporti esterni di personale specializzato: è una situazione destabilizzante e dalla quale spesso si esce con l’acquisizione di ulteriori patologie da parte del familiare più coinvolto, ma poi finisce. E quando un “inferno” finisce con un decesso, i superstiti vogliono una sola cosa: dimenticare l’inferno! Per questo di quell’inferno non ci sono testimonianze, nessuno ne vuol parlare… Questo però non significa che non esista e non vuol nemmeno dire che in un inferno simile si debba essere lasciati totalmente soli perché la lista d’attesa per l’accesso ai servizi domiciliari non prevede una tale condizione.

Poi c’è un’altra situazione di “alta intensità  e complessità assistenziale” che è uno stato di emergenza continua (ventiquattr’ore) che perdura mesi e a volte anche anni. In nulla cambia rispetto all'”inferno” che ho descritto prima: macchinari che suonano ad ogni ora del giorno e della notte e che richiedono un apporto umano attivo e specializzato, continui interventi specialistici per calibrare terapie man mano che il peggioramento avanza e, non ultimo – visto che in questi frangenti ci sono anche dei momenti di tregua -, il pensare a un minimo di vita di relazione e di supporto emotivo della persona che si trova in questo stato, che se si tratta di un ragazzino in piena adolescenza – come nel mio personale caso – richiede anche l’esigenza di avere un minimo di rapporto con i coetanei, di portare avanti piccoli impegni scolastici, di programmare l’uscita in ambulanza per andare a fare un controllo più approfondito in ospedale (ciò che equivale per lui a una “gita pericolosamente avventurosa” – considerando i maggiori rischi nel trasporto – ma che è estremamente emozionante e che lo lascia spossato e sereno per almeno un paio di giorni).
In tutto questo la prestazione infermieristica dura dal paio d’ore offerte dalla “virtuosa” Regione Lombardia, alle sei ore della Regione Lazio (in altre situazioni si riesce ad ottenere anche di più, in altre nemmeno quello, ma la media di supporto sanitario offerto a domicilio dall’ASL è questa).
Se la persona in condizione di alta intensità assistenziale aveva già avuto il riconoscimento, come nel caso di mio figlio, di una situazione di gravità massima – ottenuta tra l’altro attraverso una battaglia legale -, nulla di più viene offerto in supporto all’assistenza. Questo vuol dire che il budget assistenziale affidato a mio figlio in quanto persona con disabilità grave, che permetteva a me, unico parente caregiver, di continuare ad andare a lavorare, mangiare, dormire e avere ogni tanto una vita di relazione, una volta che la sua situazione si è aggravata fino a questo punto, è rimasto invariato. E ciò ha comportato il rinunciare a tutto, vivere in una condizione di “arresti domiciliari”, in un’emergenza assistenziale che nel caso di mio figlio dura da quasi un anno.

A questo punto non so se ho reso l’idea di come è cambiata l’assistenza richiesta a mio figlio: prima aveva necessità di vigilanza continua e di un supporto educativo per alimentarsi, per l’igiene personale, per la sua mobilità (è non vedente e per muoversi in carrozzina aveva necessariamente bisogno di qualcuno che lo guidasse), ma riusciva a respirare senza essere periodicamente aspirato; non doveva restare attaccato ventiquattr’ore a una flebo per alimentarsi, non aveva dolori nella sua mobilità, non doveva passare la maggior parte del suo tempo a letto con continui cambi posturali per evitare il decubito, non doveva, a volte, essere rianimato con l’ambu durante le apnee [l’ambu è uno strumento utilizzato dai soccorritori per il supporto dell’attività respiratoria come manovra nella rianimazione, N.d.R.].
Qualcuno penserà che questa non è una vita degna di essere vissuta e che non valga la pena di dannarsi tanto per continuare a mantenere uno stato di relativa stabilità in queste condizioni. Mio figlio, però, non è di questa opinione… e su ciò vorrei anche sottolineare che una delle ragioni per cui non va lasciato solo il parente caregiver a decidere sulle condizioni di vita del proprio congiunto, riguarda anche questo: c’è stato un momento in cui io ero talmente arrivata allo stremo che ho pensato – e non ho remore a parlarne – che era meglio anche per mio figlio che questa sua condizione finisse subito. Lui mi ha ampiamente smentito… forse proprio perché è stato sempre in una condizione di disabilità, il passare all’attuale situazione di terminalità è stato un po’ come avviene per le persone senza disabilità quando acquisiscono una minorazione: alla disperazione iniziale subentra un adattamento. E lui si è adattato a vivere quotidianamente, ondeggiando tra la vita e la morte, e poiché è sempre stato un tipo ironicamente allegro, nei giorni in cui sta un po’ meglio, arriva a canticchiare felice. Già, felice. E so che probabilmente a molti sembrerò pazza, ma io spero che il suo inevitabile percorso verso la fine sia lentissimo perché non ho nessuna voglia di dirgli addio, e lui non ha nessuna voglia di dire addio ai ragazzini che vengono a trovarlo, ai maestri, ai suoi compiti, alla sua musica.

In questa condizione di emergenza assistenziale ci sono diverse famiglie. Non siamo molti e nella maggior parte dei casi ci siamo organizzati in proprio, perché sono ancora più rare le famiglie monoparentali, come la mia. Ma so di situazioni simili che durano anni. Anni.
Alcune famiglie hanno avuto la “fortuna” di investire i soldi di un risarcimento in un’assistenza dignitosa e sperano che quel denaro non finisca prima che se ne vadano i loro congiunti. Altri hanno ceduto all’RSA [Residenza Sanitaria Assistenziale o Assistita, N.d.R.], dove i loro parenti rimangono sì “in vita”, ma dove non vengono più nemmeno considerati esseri umani. Dove diventano delle “risorse da far sopravvivere”, per incassare le consistenti cifre – che vanno ben oltre il migliaio di euro al giorno – che le Regioni stanziano per ogni persona con disabilità ad alta intensità assistenziale in regime di ricovero. Alcuni altri sono oggetto di “eutanasia passiva clandestina”: volenti o nolenti. Altri ancora, infine, muoiono insieme al loro caregiver. Tutto questo nel silenzio più totale.

Chiedere dunque che sia riconosciuta l’urgenza esistente quando ci si trova in questa situazione, è una garanzia per tutti, nessuno escluso, perché a tutti, proprio a tutti, può capitare di trovarsi in una condizione simile e il diritto di scegliere “se”, e soprattutto, “come” continuare a vivere non può essere affidato al sacrificio di chi ci ama. 

*Coordinatrice del sito http://chiaraesimone.altervista.org. Referente per il Lazio di Un Passo Avanti – Associazione Genitori Bambini Cerebrolesi. Coautrice del libro Mio figlio ha le ali. Storie di quotidiana disabilità (Erickson, 2007). Di quest’ultimo si legga nel nostro sito cliccando qui.

Rispetto ai contenuti del presente testo, suggeriamo la lettura – sempre nel nostro sito – anche di: Caregiving familiare e disabilità gravissima: assai più di una ricerca (di Giorgio Genta, cliccare qui); I gravissimi: chi sono e quanti sono? (di Giorgio Genta, cliccare qui); Oggi la priorità è il riconoscimento giuridico dei disabili gravissimi (di Giorgio Genta e Dario Petri, cliccare qui); Ciò che conta è la complessità della persona (di Marco Vesentini, cliccare qui); Disabilità gravissima? No, grazie (di Giampiero Griffo, cliccare qui); Non sempre le parole sono pane (di Giorgio Genta, cliccare qui); Se la questione della gravità diventa terreno di contrapposizioni (di Cecilia Marchisio e Natascia Curto, cliccare qui); Non ci sono disabilità gravi più gravi di altre (di Nadia Covacci, cliccare qui); Sui gravissimi, ricapitolando (di Giorgio Genta, cliccare qui); Parliamo di «persone che necessitano di maggiori sostegni» (di Giampiero Griffo, cliccare qui); Autodafé ovvero le parole bruciano come il fuoco? (di Giorgio Genta, cliccare qui).
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