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Andrew, che è andato «ben oltre la sedia»

Un'immagine del viaggio di Andrew Shelley a Phnom Penh, capitale della CambogiaHa la distrofia muscolare. Si sposta con una carrozzina elettrica e un respiratore BiPAP senza il quale non può dormire. Ha bisogno dell’elettricità per ricaricare la carrozzina e far funzionare il respiratore, anche se si avvale di speciali batterie per utilizzarlo in situazioni scomode, come l’aereo. Ha viaggiato con lo zaino per sessanta giorni non stop, durante i quali ha esplorato cinque Paesi, partendo dagli Stati Uniti, perché Andrew è americano.
Il suo nome completo è Andrew Shelley, è magro, sulla trentina. Prima del viaggio, la sua era una vita nella norma: il lavoro, la casa, la malattia, la solitudine, la noia. Solo che a un certo punto Andrew decide di fare un passo. Ci sono mille ragionevolissime motivazioni per non fare quello che ha fatto Andrew, ma per chi, come lui, sente una voce dentro che grida «libertà!», il rischio di non ascoltarla è invecchiare nella frustrazione. Magari dando colpa alla malattia, per chi ne ha una. Eppure Andrew lo dice chiaramente: «Mi sono reso conto che le mie condizioni fisiche non possono limitare le mie esperienze e le mie avventure».
Andrew, infatti, un bel giorno decide di lasciare tutto e di partire per un giro del mondo in sessanta giorni. Nella sua situazione fisica e di salute, un’avventura che si aggiunge all’avventura. E noi, vi chiederete, come facciamo a conoscere la sua storia? Perché il suo errare è diventato un vivace documentario del quale ci si può fare un’idea guardando il trailer nel suo sito Btcmovie.com (ove “Btc” sta per Beyond the chair e cioè “Oltre la sedia”). Anche chi non conosce l’inglese rimarrà impressionato dalle immagini: la carrozzina che avanza su due assi di legno sospese nel vuoto e prosegue sul terreno accidentato del bosco, il giro in barca, sulla neve, nel deserto, una danza sulle ruote della carrozzina dietro l’enorme sedere di un elefante o al tramonto in riva al mare.
Andrew ha viaggiato con una squadra di compagni che hanno registrato ogni cosa e ne hanno fatto un film. In attesa di vederlo, lo abbiamo intervistato.

Quando hai incominciato a fantasticare sul viaggio?
«Quasi un anno prima di partire. La mia vita non stava andando dove volevo. Non avevo una ragazza né facevo cose coinvolgenti. Non mi andava di passare il tempo a lavorare e mi ero reso conto che dalla vita volevo di più».

Come sei riuscito a organizzare il progetto?
«Mi sono licenziato e mi stavo già preparando per partire da solo, quando il mio compagno d’appartamento, uno studente di cinema, mi ha detto che gli sarebbe piaciuto filmare le mie avventure. La vedeva come una storia bellissima e si aspettava di catturare momenti entusiasmanti».

Andrew «trasportato» sulle nevi, dall'elicottero alla sua carrozzinaQuanto tempo ci è voluto per preparare tutto?
«Otto mesi, durante i quali c’è stato molto da fare per programmare il film: raccolta fondi, acquisto dell’equipaggiamento, visti turistici e permessi vari. In più abbiamo pianificato l’itinerario e prenotato le stanze per dormire».

È stato difficile licenziarsi? Che lavoro facevi?
«Sì, è stato difficile lasciare un buon assegno mensile e la sicurezza, ma il lavoro mi aveva nutrito abbastanza e mi sentivo pronto ad assumermi il rischio di vivere la vita che davvero desideravo. Ero un ingegnere di sistema per la Lockheed Martin. Lavoravo a un progetto interessante, un sistema per il comando e il controllo militare, ma il mio ruolo era prevalentemente di documentazione e questo di per sé non era particolarmente coinvolgente o stimolante».

Come trascorrevi le tue giornate?
«Lavoro-cibo-sonno: ecco i tre elementi portanti delle mie giornate. Non andavo da nessuna parte né incontravo nuove persone come avrei desiderato, né mi concedevo di avere la vita piena che dentro di me sognavo».

Quando siete partiti?
«Nel fine settimana dopo il Giorno del Ringraziamento [quarto giovedì di novembre, N.d.R.]. Ero terrorizzato. Ero da poco caduto e mi ero fatto male alla schiena, per cui ero pieno di dolori. Avevo paura che sarebbero peggiorati. Il giorno prima della partenza il dottore mi sconsigliò di andare, dicendomi che mi avrebbe rincorso su e giù per l’aeroporto se solo ci avessi provato».

Quanto è durato il viaggio?
«Sessanta giorni, attraverso l’India, Dubai, la Cambogia, la Nuova Zelanda e gli Emirati Arabi Uniti».

E adesso, come sta andando il “viaggio” del film?
«Lo sto portando in giro per gli Stati Uniti. L’Associazione per la Distrofia Muscolare (MDA) ci tiene molto alla sua distribuzione e le cose stanno andando bene. Il film, infatti, è distribuito in DVD e la prima presentazione è stata in dicembre in California, a Los Angeles e Chico. Ora andiamo dove ci chiamano!».

Come ti ha cambiato questa esperienza?
«Mi ha reso una persona molto più matura. Ora vedo le sfide e gli ostacoli come facilmente superabili. Ho una vita sociale attiva, viaggio e mi rapporto costantemente con nuove persone. Mi sono reso conto che le mie condizioni fisiche non possono limitare le mie esperienze e le mie avventure».

Qual è stata la parte più entusiasmante del tuo viaggio?
«Le persone che ho incontrato. Kop, l’autista del tuk-tuk [il famoso taxi asiatico a tre ruote, N.d.R.] di cui sono diventato amico e che mi ha portato in giro per la Cambogia. E anche un piccolo ragazzo disabile che ha provato la mia sedia a rotelle: sono stati loro ad aver reso la mia esperienza indimenticabile».

Con l’accessibilità com’è andata?
«Il Paese più inaccessibile è stato l’India. I bordi dei marciapiedi sono troppo alti e la maggior parte degli edifici ha quattro gradini all’ingresso. Anche se poi all’interno c’era un ascensore, comunque prima dovevo affrontare quella manciata di gradini».

E il Paese più accessibile?
«Sorprendentemente la Cambogia. I marciapiedi e i loro bordi sono perfetti, gli edifici hanno ingressi facilmente accessibili e le stanze sono spaziose. Anche i bagni sono spaziosi perché non esistono vasche o cabine doccia. Ci sono solo il rubinetto della doccia in alto e uno scolo sul pavimento».

*Testo già apparso nel numero 176 di «DM», periodico nazionale della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), con il titolo Ben oltre la sedia e qui ripreso – con lievi riadattamenti al contesto – per gentile concessione.

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