Carissimo Monistro Fornero, risiedo a Roma, ho 66 anni e sono una persona con grave disabilità motoria, affetta da SLA (sclerosi laterale amiotrofica), con necessità di assistenza continua, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita.
Per tale malattia sono stato costretto al congedo e nella mia esperienza personale – tra i miei 45 anni di “normalità” e i miei ultimi anni di grave disabilità – ho maturato la convinzione che nessuno potrà mai togliermi il Diritto di Vivere.
Quanto la mia famiglia debba spendere in termini quantitativi e qualitativi, può sicuramente chiarirlo soprattutto mia moglie, che ha dovuto, deve e dovrà quotidianamente sacrificare la massima parte della propria vita a sostegno delle mie necessità. Eppure, vestirsi, lavarsi, mangiare, bere, accudire la propria persona e semplicemente “fare” sembrerebbero atteggiamenti del tutto normali, ma se io non potessi contare sull’amore, l’attenzione, la vicinanza, il sostegno di mia moglie, certamente non potrei vantare la stessa dignità di vita che posso vantare ora e tali atteggiamenti di ordinaria normalità diverrebbero per me di “grottesca straordinarietà”.
La vera e profonda discriminazione nasce, secondo me, anche dalla profonda non consapevolezza sociale e culturale della disabilità, che arreca danni gravissimi a persone già di per sé in precarie condizioni.
In tale contesto, nell’ormai sfumata speranza che vengano introdotte norme sul prepensionamento dei familiari che assistono le persone gravemente disabili -visto che l’iter di queste proposte legislative è fermo ormai da troppo tempo al Senato [se ne legga, cliccando qui, nel portale del Senato, N.d.R.] – e partendo dal presupposto che il concetto di Vita Indipendente è strettamente connesso al diritto universale all’autodeterminazione di ogni essere umano, è evidente e assodato che il primo e più importante ausilio di cui le persone con disabilità necessitano per la loro libertà e per uscire dalla condizione di subalternità è l’assistenza personale.
In modo analogo, non si può colpevolmente nascondere o sottacere che la mia realtà quotidiana – come quella di tantissimi altri miei consimili – se non si svolgesse nell’amore e nell’ambito familiare, non avrebbe possibilità di esistere.
Il frequente dibattito sulla grave disabilità, i princìpi, gli enunciati costituiscono un bel principio dialettico e socialmente corretto e dovuto; ma poi lo stesso cozza violentemente con la realtà, molto più scarna e spesso grottesca.
Mia moglie (nata nel 1952), dipendente comunale, aveva maturato i requisiti e il pensionamento avrebbe dovuto essere ai primi del 2013. In virtù poi anche del congedo previsto dal Decreto Legislativo 151/01, il problema di conciliare il mio sostegno e il suo lavoro sembrava risultare un po’ meno pesante.
Ora, però, con le nuove disposizioni sulle pensioni, è “saltato tutto” e si dovrà attendere – forse – il 2015. E paradossalmente a mia moglie è stata anche diagnosticata di recente una grave patologia, con possibile ciclo chemioterapico e autotrapianto…
In tale condizione non posso più tacere e voglio urlare con tutto il mio essere, anche se non normodotato. E allora mi chiedo: la vita ha qualche valore oppure è solo una variabile economica? Il mio corpo e il mio sangue, e quello dei tanti come me, è valutato “un tanto al chilo” oppure è la sintesi di sensazioni ed emozioni d’animo? Alla luce di quel che succede, non è semplice rispondere, mentre non dovrebbero esserci dubbi.
E così dovrò ancora constatare che questa mia donna – come tanti altri familiari e genitori sfortunati – dovrà sostituirsi allo Stato, proprio perché questo nostro Stato ha “ceduto” la propria funzione primaria della Solidarietà, del Sostentamento e della Dignità alla buona volontà – seppure amorevole – di pochi. Mi scusi, Ministro, ma ciò lo trovo estremamente grottesco. E anche violento.