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La fame di libertà di Bruno

Bruno TescariBruno Tescari ha «lasciato il segno»: avevamo intitolato così il nostro contributo successivo alla cerimonia laica con la quale era stato salutato – coerentemente con la sua vita e i suoi quarant’anni di impegno civile – colui che tra l’altro era stato anche tra i fondatori della FISH, la Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap, della quale componeva ancora il Consiglio Direttivo.
E che Tescari abbia “lasciato il segno”, ben lo testimonia anche il seguente, prezioso ricordo di Pietro Barbieri, che riceviamo e ben volentieri pubblichiamo.

La differenza di età in una relazione umana solitamente implica la definizione di ruoli ben precisi: il più anziano è il “maestro”, il più giovane è l'”allievo”. Si contrappongono e si incontrano le note caratteristiche degli esseri umani, l’esperienza e la passione, la saggezza e l’impeto, la posatezza e il futuro. È parte del nostro DNA relazionale.
Ho vissuto il mio rapporto con Bruno Tescari in maniera completamente diversa, e solo oggi ne comprendo appieno la natura. Apparentemente a Bruno mancava la saggezza. In realtà era una profonda e inappellabile “fame di libertà”, per usare le sue parole. E questo non era un semplice non possumus dogmatico, era la lente d’ingrandimento attraverso la quale rifrangere ogni fatto della vita. Non poteva restituire idee e parole moderate e sagge, ma impegno, impegno e impegno.

Più o meno venticinque anni fa nasce il mio impegno associativo nell’organizzazione rappresentativa di para e tetraplegici di Roma. Come prima cosa, fui mandato da Tescari, il quale aveva invitato un po’ di associazioni per lanciare una raccolta di firme per l’accessibilità dei trasporti nella Regione Lazio.
Fui mandato io, e nessuno dei quindici (dicasi quindici) membri del Consiglio Direttivo perché Bruno era un “radicale rompiscatole”, anche se le sue iniziative non erano sbagliate. Quindi aderimmo, ma l’associazione non inviò a partecipare cariche di rilievo. Aderimmo anche perché aderivano altri. In epoca antecedente la fondazione della FISH, il metro era sostanzialmente questo.
Una comodità: il luogo dell’incontro era letteralmente a cinquanta metri da casa mia. Pensai fosse la sede dell’associazione di cui era presidente Bruno, invece era casa sua. Allora non ero abituato alle organizzazioni con una sede (ero alle prime armi), ma ne fui colpito lo stesso, semplicemente perché non mi aspettavo tanta informalità e tanta immediatezza. Percepii ciò che più tardi avrei più chiaramente messo a fuoco, che lo slogan femminista («il privato è politico») era più che un principio per Bruno, era un’intima convinzione, necessaria tanto quanto l’aria che respiriamo. Più tardi ebbi anche modo di capire che nella sua visione la “fame di libertà” avrebbe rischiato di essere corrotta se si fosse scelto di lavorare per reperire fondi per una struttura.
Una scomodità: la casa di allora di Bruno era inaccessibile! Ma come, una riunione sull’accessibilità, promossa da un’organizzazione di persone con disabilità, a casa del suo leader, persona con disabilità motoria, con dieci gradini all’ingresso? A parte l’ovvio stupore iniziale e un po’ di sana incazzatura, fui immediatamente coinvolto nell’organizzazione della raccolta firme, tanto da prendere parte a numerose successive riunioni senza farmi troppe domande sull’accessibilità del luogo.
Ecco un altro spunto tipico di Bruno: che importa quali mezzi hai a disposizione, se la tua battaglia è sacrosanta! La fai con ciò che hai. E non la fai per pura testimonianza, ma per vincere. Se l’avversario dispone di più mezzi, allora usa le proteste non violente, come lo sciopero della fame o della sete. L’impatto non sarà minore delle masse di persone portate (con difficoltà) in piazza.

Non ero “vergine” politicamente. Sebbene fossi stato un sostenitore della stagione referendaria, non ero radicale. A parte il pregiudizio tipico di alcune aree di militanza politica che mi portavo dietro, certi atteggiamenti e certe iniziative mi giungevano col fastidio che molti cittadini provavano nei confronti dei radicali e ai quali i mass media davano corpo più o meno costantemente.
Con quell’esperienza di raccolta firme, mi accorsi di quanto danno possa creare una credenza sbagliata. È il sonno della ragione. Da lì presi a dialogare con chiunque senza anteporre dogmi, con la sola forza del ragionamento, sia pur da posizioni antitetiche. Il velo proustiano andava riconosciuto ed eliminato. Ciò che più recentemente abbiamo tutti imparato a chiamare discriminazione.
Queste le basi del rapporto con Bruno: quando si attenuano le ragioni dello scontro, e la reciprocità si fa solida, la riconoscenza dell’allievo esiste, ma si origina sopratutto parità. E quindi anche scontri. Ma non più disonesti dal punto di vista intellettuale. Pertanto senza rancori.

L’impegno di Bruno era a tutto campo, partiva dall’assioma «conoscere per decidere». La libertà era anzitutto consapevolezza dei dati, delle tecniche e delle norme. Non bastava l’indignazione. Questo era un sentimento ancestrale e in quanto tale elementare. E poi strategia, di cui non era certo il portabandiera, ma che egli comprendeva essere l’antitesi dell’inutilità delle azioni estemporanee, anche se chiassose.
La disabilità era una metafora della condizione umana di mancanza di godimento pieno della libertà. Non molti ricordano il suo progetto di “liberazione dall’handicap” nell’arco di dieci anni. Una provocazione il titolo. E neanche un vaste programme. La consapevolezza, però, che il movimento associativo aveva – come del resto ha – un proprio programma di governo sulla disabilità.
Via l’invalidità civile come approccio al vivere differentemente con la disabilità, come strumento di misurazione della capacità delle persone, come massa di interessi di medici legali, associazioni, patronati ecc.
Assistenza e non assistenzialismo, intendendo gli adeguati sostegni nel primo caso, e le forme contenitive e segregative nel secondo. Senza troppi fronzoli.
Il posto di lavoro giusto per la persona giusta, pensando alla giustizia sociale, ma anche che produrre reddito sia costituente la dignità umana (basti ricordare l’ostentato richiamo alla sua carriera di insegnante, in ogni documento che recava la sua firma), e ad un mercato più povero senza il contributo di una parte della popolazione.
L’educazione inclusiva come diritto, senza se e senza ma. Non accettava cedimenti. Vi aveva fatto uno sciopero della fame.
L’accessibilità sia in termini stretti – con ciò riguardando la possibilità per chi vive con una carrozzina a fruire del costruito e non – sia con un approccio più esteso, come la possibilità di vivere la propria vita sessuale (vedi il suo libro Kamasabile).
Il censimento della disabilità come strumento statistico di conoscenza di quanti siamo e di cosa ci serve.
Poi c’erano i temi eticamente sensibili verso i quali la sua identità culturale si ritrovava appieno dentro al perimetro che condivideva con i membri della Luca Coscioni. Per un positivista come Bruno che voleva vivere 126 anni, la battaglia per il diritto di scelta del fine vita era una condizione importante, ma insufficiente, se non accompagnata da battaglie per la liberazione di chi vive la disabilità. Per questo limpido posizionamento, anche lì rischiava l’esercizio della democrazia dall’opposizione.
La minorità delle battaglie politiche non era ostentata in un empito di solipsismo autocelebrativo. Era la capacità premonitrice di chi ha uno sguardo lungo e non ci vuole rinunciare. Con tenacia e caparbietà. Ogni tanto, poi, la visione ampia è diventata maggioranza, spesso prima tra le persone e poi nelle organizzazioni sociali e politiche. Ecco la “lezione pannelliana” che aveva folgorato Bruno.

Alla cerimonia laica dell’ultimo saluto, Anna, la moglie, ha chiesto di tenere vivo il pensiero di Bruno, non legandolo al semplice ricordo, ma attualizzandolo e, aggiungo, criticandolo se necessario. Solo confutando il “Bruno-pensiero” non gli si fa il torto di storicizzarlo.
Mi viene in mente di chiamare a raccolta un po’ di amici per un appuntamento annuale intitolato a Bruno. Può apparire aulico e quindi contraddittorio, ma l’intestazione è anzitutto memoria e la periodicità è garanzia. Sempre per sfidare l’abuso dell’ovvietà, facciamo vivere il “Bruno-pensiero” non solo in un “dibattito tra reduci”, ma sfidando le persone di ogni provenienza a uno sforzo di lettura o rilettura, e premiamo gli sguardi lunghi che troviamo.
Il tema non può essere che l’accessibilità, quello che Bruno definiva il diritto “naturale” negato o il diritto “cerniera” che lega ogni cosa, e quello che aveva attirato maggiormente la sua attenzione.

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