Ciò che non va in quella proposta di legge

L’obiettivo è comune – migliorare sempre più l’inclusione degli alunni con disabilità – ma vi sono alcuni aspetti, nella proposta di legge sull’integrazione, presentata in questi mesi da numerose associazioni di persone con disabilità, ritenuti discutibili da un gruppo di insegnanti di sostegno di scuola superiore. Riceviamo e ben volentieri pubblichiamo, certi di poter fornire un ulteriore e utile contributo al dibattito

Bimbo alla lavagna con aria corrucciataChi scrive lo fa a nome di un gruppo di insegnanti di sostegno di scuola superiore, per rivolgersi a studenti e genitori e manifestare la nostra grande preoccupazione.
Il tema dell’inclusione degli alunni con disabilità nella scuola italiana è da tempo oggetto di dibattito e di proposte, ma gli ultimi “passi avanti” nella direzione di istituire un’area unica per insegnanti di sostegno di scuola superiore e l’eventuale creazione di una classe di concorso specifica per il sostegno hanno a parer nostro un amaro sapore di regressione, senza precedenti, e sono pericolosi per la nostra scuola, per la tutela della professionalità dei suoi operatori e per la vera realizzazione del diritto dell’istruzione degli alunni.
L’idea di “area unica”, infatti, è quella secondo la quale un insegnante di sostegno – per il solo fatto di avere acquisito un titolo di “specializzazione” in didattica speciale – sarebbe in grado di seguire gli alunni con disabilità in modo trasversale in tutte le discipline oggetto di studio della scuola superiore. Secondo questo distorto principio – che fa della “specializzazione” un titolo a sé stante e slegato dalla formazione disciplinare che ogni insegnante acquisisce nel suo lungo percorso di formazione – un docente di filosofia potrebbe efficacemente sostenere l’alunno disabile (e ovviamente gli altri studenti della classe, secondo quanto si afferma nella Legge 104/92) in elettronica, meccanica, disegno, tornio, taglio e cucito… Analogamente, un docente di arte o educazione motoria sarebbe in grado di insegnare ai suoi studenti matematica, filosofia, latino.
Sempre secondo questo distorto principio, gli insegnanti “specializzati” – per il solo fatto di esserlo – dovrebbero occuparsi solo e interamente di questioni legate alla disabilità (e a una sua generica “integrazione”, per carità, ma solo di questo, di didattica non si parla neppure…), tanto da pensare che serva una classe di concorso, cioè un’istituzionalizzazione del fatto che ci vogliono insegnanti “a parte” che si occupino solo di studenti “speciali”.

Noi docenti specializzati, invece, la pensiamo molto diversamente. Abbiamo conseguito una specializzazione in didattica speciale che è aggiuntiva e a posteriori rispetto alla nostra formazione disciplinare e alla nostra abilitazione: come a dire, abbiamo un titolo in più, una “marcia in più”, abbiamo imparato a conoscere meglio il mondo della disabilità e le delicate questioni pedagogiche e psicologiche ad essa connesse, siamo insegnanti anche “sperimentatori” di didattica, ma vogliamo affermare con forza che tutto ciò presuppone che si insegni qualcosa.
Noi docenti specializzati non abbiamo la presunzione di sostenere che la specializzazione ci renda perfetti, tuttologi, che conoscere meglio la disabilità sia la panacea di tutti i mali; al contrario, è solo un piccolo passo in più nella nostra complessa formazione di docenti, partendo però dal presupposto che siamo docenti e non assistenti o educatori.
A ciascuno la sua professionalità: perché la disabilità possa godere appieno dell’inclusione, ci vogliono tutte, ma non si devono confondere né impropriamente attribuire ai docenti. Se siamo insegnanti, lo siamo di qualcosa, non di nulla. Ebbene, questo non ci viene riconosciuto, e a maggior ragione non lo sarebbe con l’area unica. Senza un “oggetto”, una “disciplina”, infatti, la mediazione non può essere efficace. Il docente che conosce la materia e ha gli strumenti di formazione per agire con essa, può essere di reale aiuto per gli studenti che nella classe abbiano bisogno di una didattica sperimentale. Per tutti gli studenti, beninteso. E anche i docenti che oggi chiamiamo “curricolari” possono imparare da noi modi nuovi di insegnare… certo, tutto questo si potrebbe realizzare se avessimo spazio, il giusto spazio e la valorizzazione per agire davvero da motori di cambiamento nella scuola. La verità, per ora, è che i docenti di sostegno sono valorizzati solo a parole.

Partiamo allora da quello che abbiamo: ci sono oggi circa novantamila persone nella scuola che si occupano solo di disabilità, circa un decimo degli insegnanti a disposizione. Sono insegnanti mediamente più giovani – che quindi potrebbero avere un approccio alla didattica più “moderno”, se li si lasciasse insegnare anche la loro disciplina – e più motivati (almeno in teoria, se non li si lasciasse “a parte” rispetto alla vita della scuola).
Nella distribuzione attuale delle risorse, quindi, c’è un decimo dei docenti che si occupa del 100% della disabilità, mentre gli altri docenti, i “curricolari”, insegnano solo la/le loro materia/e.
Bimba con disabilità insieme a insegnante di sostegnoSulla carta, abbiamo la contitolarità e siamo docenti di classe; nella pratica reale di molte scuole, siamo i docenti che sono in quella classe “perché c’è un alunno disabile”. Che spesso ci rifiuta, perché siamo l’incarnazione della sua diversità, del fatto che lui ha bisogno di un insegnante tutto per lui. Chi lo vorrebbe? E poi perché dovrebbe essere così?
La conseguenza di tutto ciò è un’organizzazione per cui c’è il docente di sostegno che si sente schiacciato da tutti i problemi che riguardano il ragazzo disabile e spesso frustrato dal fatto di non insegnare la sua disciplina di formazione, che senz’altro ama e che “è abilitato ad insegnare ma non può farlo” (siamo pur insegnanti, non basta mai ricordarlo…); dall’altra, c’è il docente curricolare, che spesso “fa il pieno” di classi nell’insegnare la propria disciplina, è oppresso da interrogazioni da fare, compiti da correggere… L’uno guarda il docente di sostegno e spesso pensa, a torto, «che non ha niente da fare»; a sua volta l’altro guarda il collega e pensa che «almeno lui insegna» e non sta a margine della vita della scuola, è rispettato dagli studenti e dai colleghi, non è invisibile, non è l’“angelo custode” di nessuno.

Facciamo due conti: perché dobbiamo avere una così diversa distribuzione dei compiti, alimentando il conflitto tra docenti rispetto ai carichi di lavoro, e dobbiamo tenere le persone attualmente più formate, perché abilitate e in più specializzate, a occuparsi solo di uno dei mille aspetti che la scuola offre, quello della disabilità? Non avrebbe più senso il principio – che vale anche in famiglia e nella vita – che una più equa distribuzione dei carichi, delle fatiche e delle soddisfazioni, rende il lavoro di tutti più sostenibile? Quante difficoltà si potrebbero superare pensando alla condivisione di esperienze e buone pratiche?
Ma soprattutto: che messaggio daremmo della scuola e dell’inclusione della disabilità? Vogliamo “un mondo a parte”, con docenti di “area unica”, che si ridurranno a dare generici incoraggiamenti agli studenti in materie che non conoscono e verranno confusi sempre più con il servizio di assistenti o educatori? O vogliamo un mondo dove la disabilità è “normalmente” gestita e integrata nelle classi da tutti i docenti, senza distinzioni artificiose di ruoli?
Attenzione a non fare confusione: il sostegno non è una persona, ma un servizio che devono svolgere tutti i docenti; sarà la situazione specifica che di volta in volta permetterà di capire quali siano le persone più adatte a svolgerlo, senza barriere che isolino i docenti-di-sostegno solo perché sono “specializzati”. Finché ci saranno insegnanti-di-sostegno, ci saranno sempre colleghi che riterranno normale e opportuno delegare a loro le questioni più spinose, quelle che mettono in discussione, che toccano in profondità…
Tutto ciò, tra l’altro, è un controsenso: forse il cardiologo specializzato non può fare il medico generico? Chi è specializzato dovrebbe poter fare due cose anziché una, non “per forza” farne solo una! Non sarebbe quindi più sensato e “sostenibile”, nell’ottica dell’equa distribuzione delle risorse, che molti più docenti nella scuola si occupassero per una parte del loro orario di servizio, sempre in compresenza e nella/e disciplina/e di formazione, di sostegno alla didattica in presenza di disabilità?
Giovane con disabilità e insegnante di sostegnoCi piacerebbe pensare di poter avere una compresenza “a coppie” di colleghi della stessa disciplina nelle classi in cui è presente una disabilità: quanta più ricchezza si avrebbe, perché i due docenti sarebbero entrambi competenti proprio di quella disciplina e si scambierebbero i ruoli con molta più complementarietà… Ecco la contitolarità, quella vera. Altro che “area unica”: la mediazione e la trasversalità si realizzano solo a partire da persone competenti nella disciplina oggetto della lezione!

Le associazioni a tutela delle persone con disabilità e delle loro famiglie si preoccupano della continuità didattica: molto bene, è sacrosanto pensare che la continuità sia un valore; ma non è certo imponendo “vincoli di permanenza su posto di sostegno” che si otterrà un risultato soddisfacente. Certo, finora si è ottenuto che un decimo dei docenti abbia svolto e svolga tuttora questa mansione per almeno cinque anni, ma noi speriamo che si abbia a cuore la qualità e la motivazione, ancor più della “presenza fisica” di un docente vincolato.
E riteniamo vergognoso che si accusi il docente di sostegno di voler insegnare anche la sua disciplina, come altrettanto vergognoso è che il solo fatto di essere insegnante di sostegno implichi necessariamente una “vocazione” umanitaria che dev’essere praticata sempre e solo a tempo pieno. E guai a chi, dopo anni, non se la sente più… può passare per un approfittatore!

In un sistema che funziona, la motivazione e l’impegno dei docenti si creano ogni giorno dalla ricchezza delle esperienze e delle possibilità che la nostra professione offre: nella scuola ci sono i disabili, ma ci sono anche le persone con DSA [disturbi specifici dell’apprendimento, N.d.R.], ci sono gli stranieri di prima alfabetizzazione, ci sono gli svogliati, ci sono gli studiosi, ci sono anche le eccellenze… Ecco, consideriamo anche loro! Perché i docenti di sostegno devono essere privati di tutto questo?
Vogliamo valorizzare davvero i docenti di sostegno? Iniziamo a non considerarli gli “insegnanti dei disabili”, ma insegnanti bis-abili, che hanno acquisito una formazione aggiuntiva la quale può portare un vero contributo alla scuola; iniziamo a pensare che gli insegnanti di sostegno debbano essere molti di più per meno ore; se un docente si deve occupare di disabilità per alcune ore alla settimana, senz’altro lo farà meglio e lo farà per più anni… Ecco come fare ad avere continuità!
E se i docenti “curricolari” avranno la possibilità di sperimentare per alcune ore la didattica speciale, scopriranno modi di insegnare nuovi, che potranno utilmente applicare anche nella didattica ordinaria.

Alle associazioni dei genitori, noi insegnanti di sostegno chiediamo di appoggiarci in una visione di scuola che non “tenga a scuola” i loro figli, ma che realizzi il diritto all’istruzione di tutti nella complessità della scuola: anziché chiedere “insegnanti-di-sostegno”, chiedete “sostegno” e pretendete la competenza disciplinare dei docenti che insegnano non solo ai vostri figli, ma nelle classi in cui sono inseriti. Chiedere questo è chiedere molto di più, perché costringerà il sistema scuola a sviluppare la bis-abilità come risorsa per tutti.

A nome di un gruppo di insegnanti di sostegno.

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