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L’educazione inclusiva: passare dalle parole ai fatti

Alunna con disabilità in aula affollataHo scelto, quale titolo di questo mio intervento, lo stesso usato dall’EDF (European Disability Forum), in una sua recente dichiarazione sull’educazione inclusiva, dichiarazione che tiene conto della partecipazione attiva del Forum (e di tutto il movimento europeo delle persone con disabilità) alle lunghe negoziazioni che nel 2006 hanno portato a definire la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità e in particolare l’articolo 24 di essa.
L’articolo 24 della Convenzione (Educazione) sta letteralmente “nel cuore” del Trattato e ne illustra benissimo il cambiamento di approccio che – partendo dalla definizione delle persone con disabilità attraverso le loro disabilità e il loro impedimento ad accedere alla vita quotidiana – giunge a considerarle detentrici di diritti e capaci di esercitare questi ultimi tramite la piena partecipazione a tutti gli aspetti della vita, indicando altresì nelle barriere gli ostacoli che incontrano e che ne impediscono una partecipazione in situazione di parità con tutti gli altri Cittadini.
È con questo fondamentale approccio che l’articolo 24 sfida le politiche attuali, sulla base di un diritto chiaro, che richiede di rinnovare la comprensione del significato stesso di diritto all’educazione e la revisione dei pensieri e delle pratiche.
In sostanza, l’istruzione dev’essere riconosciuta come un diritto fondamentale, implicando che le persone con disabilità devono ricevere un’istruzione di qualità, come chiunque altro, in un ambiente che tenga conto delle loro esigenze.

Poiché la Convenzione è stata ratifica dall’Unione Europea e singolarmente da quasi tutti i suoi Stati Membri (mancano al momento Finlandia, Irlanda, Islanda, Norvegia e Paesi Bassi), essa diventa il riferimento e l’obbligo al rinnovo della comprensione del significato del diritto e soprattutto il riferimento alla revisione dei pensieri e delle pratiche. Una revisione che parte senz’altro dall’indicare su chi debba cadere la responsabilità dell’applicazione del Trattato. Sono infatti proprio gli Stati che – attraverso le politiche, le legislazioni e l’assegnazione di adeguate risorse economiche e finanziarie – devono garantire l’accesso all’istruzione, la qualità del sistema scolastico, la rete dei servizi che forniscono i supporti allo studente. E sono sempre gli Stati a dover evitare che l’ambiente, le norme, la mancanza di risorse e l’organizzazione del sistema scolastico diventino barriere e impediscano allo studente con disabilità di raggiungere il massimo dei suoi successi scolastici in previsione dei futuri successi sociali.
Con la propria ratifica come organizzazione intergovernativa, l’Unione Europea – attraverso la Commissione Europea – ha preso su di sé l’obbligo di applicare la Convenzione e di verificare se proprie legislazioni potessero essere in conflitto o non in linea con i princìpi della stessa. In tal senso si può dire che tutte le attività di emanazione tengano ormai conto del loro effetto sui Cittadini europei e nel caso dei Cittadini con disabilità, sia la Strategia Europea sulla Disabilità 2020, sia l’Obiettivo Strategico Education and Training 2020 – Strategic Framework (che guida in questo ambito le politiche di cooperazione tra Stati Membri dell’Unione), sia anche le conclusioni del Consiglio del maggio 2010 sulla dimensione sociale dell’educazione e della formazione, sottolineano che i sistemi educativi devono rispondere alla diversità e garantire la piena inclusione di tutti gli studenti, anche di quelli con disabilità.

Luisella Bosisio Fazzi e Nicola Fazzi all'ONU, marzo 2007

Luisella Bosisio Fazzi, con il figlio Nicola, al Palazzo delle Nazioni Unite di New York, il 30 marzo del 2007, in occazione della firma italiana della Convenzione (foto di Giulio Fazzi)

Per far questo, la Commissione Europea ha deciso di conoscere la cifra del sistema educativo europeo e ha commissionato un rapporto che ha fatto emergere le differenze e le difficoltà, comparate tra i vari Stati Membri.
In parallelo l’Agenzia Europea per lo Sviluppo dei Bisogni Educativi Speciali ha concluso una ricerca, volta alla costruzione di un quadro dello stato di attuazione delle politiche di inclusione scolastica, che indica come necessaria un’opera di mappatura di esse, nell’Europa e nei suoi Stati.
I risultati di queste indagini hanno prodotto una serie di documenti utili a quei politici e a quei responsabili di politica amministrativa che debbano assumere decisioni in ambito educativo e di supporto all’inclusione educativa.

Va detto subito che una comparazione tra i differenti sistemi scolastici è praticamente impossibile, perché ogni Paese ha diversi sistemi di classificazione. Per facilitare, dunque, un’analisi comparativa, gli Stati sono stati invitati a riclassificare le proprie categorie nazionali in tre grandi gruppi:
Categoria A: studenti disabili, per i quali la situazione di svantaggio è chiaramente dovuta a cause biologiche (ipovisione, sordità, disabilità fisica e intellettiva).
– Categoria B: studenti che hanno problemi comportamentali e di apprendimento non dovuti a cause particolari;
– Categoria C: studenti che hanno difficoltà derivanti da svantaggi sociali, conseguenti a fattori socio-economici, culturali e/o linguistici.

Gli studenti disabili sono in gran parte compresi nella Categoria A, sebbene in alcuni casi e in alcuni Paesi essi siano inclusi anche nella Categoria B.
Questo sistema ha delle caratteristiche negative – in quanto sorvola sulle complessità nazionali – ma ha comunque il pregio di riuscire a far emergere alcuni importanti contrasti internazionali. Emerge infatti la grande diversità della percentuale di bambini identificati come SEN (Special Education Needovvero “Bisogni educativi speciali”), andando ad esempio dall’1,5% della Svezia al 24% dell’Islanda (dati, per altro, da prendere con estrema cautela).
Se poi si passa al numero degli alunni in età di obbligo scolastico e alla percentuale di essi inseriti in Segregated Special Schools e Special Classes [Scuole e classi speciali”, N.d.R.], sono disponibili i dati del 2010 della citata Agenzia Europea. Ebbene, anche qui le cifre rilevano una forte discrepanza tra Paesi sull’uso delle “scuole speciali”. Stati molto selettivi come il Belgio, la Germania e i Paesi Bassi ne hanno un numero assai elevato per abitante e l’identificazione di SEN viene spesso utilizzata come giustificazione per l’inserimento scolastico speciale. Di contro, Paesi come la Spagna e il Regno Unito presentano minori collocamenti speciali.
Altri dati, poi, risultano assai difficili da spiegare. Andando infatti al di là dell’Unione Europea, uno Stato come la Turchia sembra avere un numero molto basso di scuole speciali, contro ad esempio un Messico che ne mostra un numero elevato. Il numero basso, nel caso di Paesi poveri, potrebbe significare la mancata disponibilità di scuole speciali (e non) per questioni economiche o di sistema. Viceversa, un numero alto potrebbe significare che le cause per il collocamento speciale non dipendono solo dalla disabilità, ma anche da condizioni sociali di svantaggio.

Un’ultima statistica interessante, infine, concerne la percentuale di alunni in “scuole speciali” nei differenti Paesi Europei, con i dati dell’Agenzia Europea che mostrano come si passi dallo 0,01% dell’Italia al 5,1% nella zona delle Fiandre.
Anche se nei documenti sopracitati viene consigliata un’estrema prudenza nell’interpretazione dei dati, si è osservato che in quei Paesi dove il sistema speciale è ben radicato e ove sono assenti discussioni sulla loro chiusura o modifica, si prevede una staticità del collocamento speciale per almeno altri vent’anni. In quei Paesi, invece, dove si sta procedendo alla chiusura del sistema speciale, si nota l’incremento di unità speciali inserite nel sistema ordinario (ad esempio: Unità di Supporto Comportamentale) e il calo di forme assolute di esclusione.
In assoluto si può osservare che le politiche scolastiche inclusive hanno maggiore e migliore impatto sugli alunni con disabilità fisiche e sensoriali, provenienti da scuole e classi speciali, e inseriti nelle classi ordinarie anche su richiesta da parte delle loro famiglie.

Bimbo parla all'orecchio a un altro bimboDopo questa veloce ricognizione sulla situazione europea, vorrei ora riflettere sulla sollecitazione che deriva dalle parole del titolo di questa analisi. Una sollecitazione connessa anche al fatto che sia l’Europa che l’Italia hanno ratificato la Convenzione e quindi lo Stato Italiano e tutti i suoi apparati si sono assunti l’obbligo di agire affinché essa venga applicata.
È ormai cosa nota che l’applicazione di una Convenzione riguarda i diritti di tutti e di ciascuno e che alle persone con disabilità – nella fattispecie agli alunni e agli studenti con disabilità – non devono essere riconosciuti maggiori diritti: essi, infatti, devono godere pienamente di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali, su base di uguaglianza rispetto agli altri.
E ancora, è pure ben noto che la responsabilità di tale applicazione ricade sugli Stati, i quali (articolo 1 della Convenzione) devono «Rispettare, proteggere e assicurare il pieno godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità e il rispetto della loro innata dignità umana».
Mi si permetta di ricordare il significato di questi verbi: Rispettare, Proteggere e Assicurare, che vengono ampiamente descritti, come Obblighi generali, nel successivo articolo 4 della Convenzione.
Rispettare: lo Stato deve astenersi da prendere decisioni o dall’emanare atti che possano violare i diritti umani. Proteggere: lo Stato deve assicurare che anche parti terze rispettino i diritti umani (settore privato). Assicurare: lo Stato deve assumere tutte le misure legislative, finanziarie, politiche, sociali, di bilancio, in tutti gli àmbiti (anche in quello educativo, quindi), per migliorare il pieno godimenti dei diritti umani.

Si passi ora al già citato articolo 24, specificamente dedicato all’Educazione.
«24.1. Gli Stati Parti riconoscono il diritto all’istruzione delle persone con disabilità. Allo scopo di realizzare tale diritto senza discriminazioni e su base di pari opportunità, gli Stati Parti garantiscono un sistema di istruzione inclusivo a tutti i livelli ed un apprendimento continuo lungo tutto l’arco della vita, finalizzati: (a) al pieno sviluppo del potenziale umano, del senso di dignità e dell’autostima ed al rafforzamento del rispetto dei diritti umani, delle libertà fondamentali e della diversità umana; (b) allo sviluppo, da parte delle persone con disabilità, della propria personalità, dei talenti e della creatività, come pure delle proprie abilità fisiche e mentali, sino alle loro massime potenzialità; (c) a porre le persone con disabilità in condizione di partecipare effettivamente a una società libera».
La Convenzione, quindi, non definisce esplicitamente cosa sia un sistema di istruzione inclusivo e tuttavia inclusione  non può essere confusa con integrazione. Il concetto di integrazione, infatti, implica che sia la persona ad adattarsi al sistema scolastico e che non siano previsti cambiamenti dell’ambiente, della pedagogia e della organizzazione. Il concetto di inclusione, invece, è più ampio e implica cambiamenti progressivi e adattamenti del sistema, affinché ognuno possa trovare risposta ai suoi bisogni e in esso migliorare.
In altre parole, sistema inclusivo significa che tutti gli alunni e studenti devono essere trattati con rispetto e che vanno garantite a tutti le pari opportunità di apprendimento. Si tratta di un processo che non dipende solo dal sistema scolastico, ma che vede implicati diversi altri attori i quali hanno responsabilità di politica sociale, sanitaria e riabilitativa, economica e amministrativa, con la comune convinzione che sia responsabilità del sistema educare tutti gli alunni e gli studenti e metterli in condizione di apprendere.

«24.2. Nell’attuazione di tale diritto, gli Stati Parti devono assicurare che: (a) le persone con disabilità non siano escluse dal sistema di istruzione generale in ragione della disabilità e che i minori con disabilità non siano esclusi in ragione della disabilità da una istruzione primaria gratuita libera ed obbligatoria o dall’istruzione secondaria; (b) le persone con disabilità possano accedere su base di uguaglianza con gli altri, all’interno delle comunità in cui vivono, ad un’istruzione primaria, di qualità e libera ed all’istruzione secondaria; (c) venga fornito un accomodamento ragionevole in funzione dei bisogni di ciascuno; (d) le persone con disabilità ricevano il sostegno necessario, all’interno del sistema educativo generale, al fine di agevolare la loro effettiva istruzione; (e) siano fornite efficaci misure di sostegno personalizzato in ambienti che ottimizzino il progresso scolastico e la socializzazione, conformemente all’obiettivo della piena integrazione».
Questa parte dell’articolo 24 risente del fatto che a livello mondiale esistono discriminazioni all’accesso. Discriminazioni all’interno di legislazioni, e pratiche che considerano normale l’esclusione, che considerano “ineducabili” gli allievi con disabilità, che istituiscono specifiche commissioni le quali decidono chi escludere, come escludere e dove escludere. Paesi, infine, in cui non sono chiari i metodi di classificazione, di identificazione e di valutazione dei bambini con disabilità e Paesi che finanziano separatamente il sistema scolastico speciale e ordinario oppure ancora Paesi che non finanziano alcun sistema scolastico.
Per l’Italia, tale formulazione è alquanto disorientante, poiché – com’è ben noto – il nostro sistema prevede già l’applicazione, ancor prima della ratifica della Convenzione, delle misure contenute in questa parte e in quella precedente dell’articolo 24, e in linea con il comma 4 dell’articolo 4.

Ragazzina con disabilità insieme a compagne di scuola«24.3. Gli Stati Parti offrono alle persone con disabilità la possibilità di acquisire le competenze pratiche e sociali necessarie in modo da facilitare la loro piena ed uguale partecipazione al sistema di istruzione ed alla vita della comunità. A questo scopo, gli Stati Parti adottano misure adeguate, in particolare al fine di: (a) agevolare l’apprendimento del Braille, della scrittura alternativa, delle modalità, mezzi, forme e sistemi di comunicazione aumentativi ed alternativi, delle capacità di orientamento e di mobilità ed agevolare il sostegno tra pari ed attraverso un mentore; (b) agevolare l’apprendimento della lingua dei segni e la promozione dell’identità linguistica della comunità dei sordi; (c) garantire che le persone cieche, sorde o sordocieche, ed in particolare i minori, ricevano un’istruzione impartita nei linguaggi, nelle modalità e con i mezzi di comunicazione più adeguati per ciascuno ed in ambienti che ottimizzino il progresso scolastico e la socializzazione».
Questa parte dell’articolo 24 indica che l’educazione dev’essere vista come un processo globale che includa sia lo sviluppo delle competenze accademiche che quello delle competenze sociali e di vita quotidiane. Viene in particolare fortemente sottolineata la necessità di fornire un adeguato sostegno allo studente e una particolare attenzione alle strategie comunicative, le uniche che permettono la partecipazione dello studente con disabilità.
Qui il riferimento del testo alle persone cieche, sorde o sordocieche dev’essere considerato solo come esempio di rispetto delle diverse metodologie comunicative da applicare con la stessa intensità e dignità anche agli altri gruppi di persone con disabilità o che usano differenti sistemi di comunicazione. Infatti, un’educazione che guardi ai diritti umani chiede il rispetto di ogni metodologia di comunicazione e chiede che si tenga conto delle caratteristiche dell’alunno, incluse quelle che non riguardano la sordità, e del contesto in cui è cresciuto e vive. Nel caso di alunni minori, poi, tiene conto del rispetto delle scelte fatte dalla famiglia di quegli alunni, garantendo il riconoscimento e l’esigibilità dei diritti di ogni bambino, compreso quello con disabilità.

Nell’avviarmi alla conclusione di questa analisi, non posso non soffermarmi su alcune questioni particolarmente delicate, relative agli studenti con disabilità sensoriali la cui responsabilità di supporto, nel nostro Paese, cade in capo alle Amministrazioni Provinciali, che devono concorrere con risorse proprie alla realizzazione del sistema educativo nazionale [il presente passaggio dell’intervento di Luisella Bosisio Fazzi, e anche il precedente, vanno contestualizzati nell’ambito del Convegno di Milano del 29 settembre 2012, durante il quale l’intervento stesso è stato pronunciato, convegno dedicato al tema Quale futuro per i servizi riservati alle disabilità sensoriali? II Convegno nazionale di confronto fra Amministrazioni, N.d.R.].

Alla luce di quanto sostenuto precedentemente, l’azione delle Amministrazioni Provinciali – quali strutture e autorità pubbliche locali – viene chiamata ad assicurare agli alunni e agli studenti con disabilità sensoriali i supporti, gli strumenti e le risorse adeguate ai loro bisogni educativi e di inclusione, all’insegna di una nuova cultura sulla disabilità, basata appunto sui diritti umani e sulla Convenzione ONU.
Riprendendo per altro a piene mani un recente articolo di Giampiero Griffo, pubblicato anch’esso da Superando.it [“La crisi mondiale e le politiche di inclusione: i servizi di sostegno”, N.d.R.], bisogna ricordare che lo scenario di oggi è determinato dalla crisi economica mondiale, con il rischio, per le persone con disabilità, di tornare ad essere “cittadini invisibili”, perché pare che il dato economico sia prevalente sul rispetto dei diritti umani, pur essendo, ad esempio, il diritto all’educazione  costituzionalmente garantito.

Hannah Arendt

La filosofa e storica Hannah Arendt (1906-1975)

La risposta delle Amministrazioni Pubbliche alla tutela dei diritti è insomma squisitamente economica e legata al risparmio. Un risparmio che considera le spese per le politiche di welfare – e nel nostro caso a supporto del sistema scolastico – improduttive e quindi da ridurre, portando all’esclusione, alla valutazione negativa della persona, al rifiuto della parità di condizione, alla negazione dell’appartenenza e alla cancellazione dell’altro come persona titolare di diritti umani.
La Convenzione ONU, invece, propone una nuova idea di giustizia, fondata sulla rimozione degli ostacoli e delle discriminazioni, sul sostegno appropriato alle persone, su servizi e benefìci finalizzati all’inclusione. Essa considera le persone con disabilità come parte della società e quindi beneficiarie di tutte le politiche e i programmi. Ciò significa che le risorse – prima destinate ai “Cittadini di serie A”, ai quali si aggiungevano nei periodi di “vacche grasse” risorse aggiuntive per le persone con disabilità (e per altre fasce sociali “vulnerabili”) – dovranno essere utilizzate per tutti i Cittadini.
Stiamo pertanto pagando l’idea che le politiche di welfare siano un “lusso” e in questi ultimi anni – nonostante la Convenzione ONU – anche gli Stati che l’hanno ratificata hanno “schizofrenicamente” ridotto gli interventi a favore delle persone con disabilità.
In altre parole, i fondi per gli interventi sociali sono considerati “elastici”, quasi fossero “interventi caritativi”. Il riconoscimento delle responsabilità della società che crea condizioni di disabilità deve invece far cambiare anche il modello di giustizia e di motivazione dei vari interventi di sostegno, che vanno legati al conseguimento di condizioni di uguaglianza e non discriminazione – quindi di tutela dei diritti umani – come appunto afferma la Convenzione. Essi, in conclusione, non devono essere interventi soggetti a flessibilità delle risorse, poiché i diritti umani non sono comprimibili, a maggior ragione se responsabili del rispetto di essi sono le politiche pubbliche.

L’incipit della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani recita: «Tutti gli uomini nascono liberi ed uguali in dignità e diritti». E tuttavia Hannah Arendt, filosofa e storica tedesca, studiosa di teoria della politica scrive: «L’uguaglianza non ci è data, ma è il risultato dell’organizzazione umana nella misura in cui si fa guidare dal principio di giustizia» (Le origini del totalitarismo, 1951). E aggiungo che non dev’essere mai guidata da una certa domanda rivolta allo studente con disabilità, ovvero: «Ma quanto ci costi?».

Presidente di FONOS (Fondazione Orizzonti Sereni). Il presente testo è un riadattamento dell’intervento presentato  durante il Convegno di Milano del 29 settembre 2012, denominato “Quale futuro per i servizi riservati alle disabilità sensoriali? II Convegno nazionale di confronto fra Amministrazioni”. A corredo di tale intervento, l’Autrice ha presentato anche una serie di grafici e tabelle, qui non riprodotte, ma disponibili – su richiesta – presso la nostra redazione (info@superando.it).

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