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Per un’etica dell’inclusione

Leon Battista Alberti

Leon Battista Alberti (1404-1472)

Questo scritto non è contro nessuno e contro niente. È semplicemente un contributo al dibattito sullo stato della scuola. Il pretesto è l’emanazione della Direttiva Ministeriale Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica, del 27 dicembre 2012 e della recente Circolare Ministeriale 8/13, del 6 marzo, che fornisce suggerimenti operativi per l’implementazione della Direttiva stessa.
Semplicemente «… io voglio capire, capire, capire, nel senso etimologico della parola, e quando una cosa non m’entra, vorrei dilatare la mia mente fino a farci stare tutto l’universo e qualche cosa di più…» (Dino Provenzal, da «La Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia», n. 5, settembre-ottobre 1924, preside rimosso dal suo ruolo in base alle leggi razziali del 1938).

Prolegomeni: delle arti e delle scienze
Per essere coerente, ho cominciato a documentarmi, per spiegarmi l’importanza del concetto di persona nella sua globalità, bio-psico-sociale, ben rappresentata dall’ICF [la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, definita nel 2001 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.]. E ho scelto di interrogare la storia, partendo dal Rinascimento. Tra i tanti protagonisti, mi preme citare Leon Battista Alberti, architetto, umanista, scrittore, che così si esprime sulla bellezza: «La bellezza è armonia, concinnitas, tra tutte le parti riunite in un insieme: se togli o aggiungi un elemento comprometti il tutto» (Alberti, 1435).
Rousseau, alcuni secoli dopo, nel 1755, scrive: «… la differenza naturale degli uomini non spiega affatto la loro disuguaglianza sociale, è la storia che li rende disuguali, non la loro natura» (Rousseau, 1755).
Aristide Gabelli, insigne esponente della pedagogia positivista di fine Ottocento, scrive: «Quanto all’istruzione intellettuale, è da avvertire per prima cosa che, se le scuole devono somministrare un certo numero di cognizioni, tuttavia la mira ultima di tutto l’insegnamento non è riposta tanto nelle cognizioni stesse, quanto nelle abitudini che il pensiero acquista dal modo in cui vengono somministrate» (Gabelli, 1888).
Concetti che ci riportano alla “testa ben fatta” piuttosto che alla “testa ben piena” che Edgar Morin ci ha ricordato – in un suo splendido saggio (Morin, 2000) – essere un pensiero risalente a Michel de Montaigne, filosofo e scrittore del Cinquecento.
Maria Montessori, che non ha bisogno di presentazioni, ci ha lasciato questa testimonianza molto importante: «Il fatto che la pedagogia dovesse unirsi alla medicina nella terapia era la conquista pratica del pensiero dei tempi e su tale indirizzo si diffondeva la Kinesiterapia. Io però, a differenza dei miei colleghi, ebbi l’intuizione che la questione dei deficienti fosse prevalentemente pedagogica, anziché prevalentemente medica; e mentre molti parlavano nei congressi medici del metodo medico-pedagogico per la cura e l’educazione dei fanciulli frenastenici, io ne feci argomento di educazione morale al congresso Pedagogico di Torino, nel 1898; e credo di aver toccato una corda molto vibrante poiché l’idea, passata dai medici ai maestri elementari, si diffuse in un baleno come questione viva, interessante la scuola». E nel 1909 riconosce che «la preparazione dei maestri è necessario che sia contemporanea alla trasformazione della scuola. Se abbiamo preparato maestri osservatori e iniziati all’esperienza, conviene che nella scuola possano osservare e sperimentare» (Montessori, 1909).
Prima di lei, Edouard Sèguin, considerato uno dei primi pedagogisti clinici, se non il primo, a cui la Montessori fa spesso riferimento, così scrive, nel 1846: «… avendo come fine il trattamento dei giovani idioti ero incessantemente ricondotto, dalla forza stessa del mio soggetto,  ad informarmi dei metodi, a comparare le teorie, a discutere le pratiche dell’insegnamento» (Sèguin, 1846).

In questo contesto non possiamo certo rinunciare a pensatori che hanno dato un grande contributo all’evoluzione del pensiero contemporaneo. Negli Anni Sessanta, Jerome Seymour Bruner, nel suo Il conoscere. Saggi per la mano sinistra, sottolinea: «Questo è stato anche il decennio nel quale s’è venuto per noi chiarendo sempre più il ruolo dell’ambiente, nelle sue diverse attività e nei suoi complessi condizionamenti. Abbiamo compreso quale importanza abbia l’ambiente per tutelare la normalità delle funzioni dell’uomo, e per consentirne il dovuto sviluppo delle capacità umane. Gli esperimenti di isolamento hanno reso evidente come un essere umano immobilizzato in un ambiente impoverito dal punto di vista sensoriale perda ben presto il controllo delle proprie funzioni mentali» (Bruner, 1968).
E ancora, non si può certo rinunciare al contributo di un filosofo e sociologo come Ralf Dahrendorf: «Io penso in realtà che la diseguaglianza sia un elemento della libertà. Una società libera lascia molto spazio alle differenze tra gli uomini, e non solo a quelle di carattere, ma anche a quelle di grado. La diseguaglianza non è più compatibile con la libertà quando i privilegiati possono negare i diritti di partecipazione degli svantaggiati, ovvero quando gli svantaggiati restano nei fatti del tutto esclusi dalla partecipazione al processo sociale, economico e politico». E ancora: «Il fine più alto è l’estensione delle chances di vita dei vincenti a tutti gli altri» (Dahrendorf, 2005).
Un altro sociologo e filosofo, Zygmunt Bauman, analizza, con puntualità e incisività, la mixofobia, attraverso la descrizione delle cosiddette gated communities [“comunità chiuse”, N.d.R.]: «L’intento di questi spazi preclusi è chiaramente quello di dividere, segregare, escludere, e non quello di creare ponti, comodi transiti e luoghi d’incontro, di facilitare le comunicazioni e riunire gli abitanti della città». E la mixofilia come fusione di orizzonti: «La comprensione reciproca si ottiene con una “fusione d’orizzonti”; orizzonti cognitivi, che vengono tracciati e allargati accumulando esperienze di vita. La fusione che una comprensione reciproca richiede non può che essere la conseguenza di un’esperienza condivisa; e non si può certo pensare di condividere un’esperienza senza condividere uno spazio» (Bauman, 2005).

Maria Montessori

Maria Montessori (1870-1952)

In Cinque chiavi per il futuro, nel capitolo dedicato all’Intelligenza sintetica, Howard Gardner ci fa notare come «gli individui che non hanno capacità di sintesi saranno travolti dalla mole delle informazioni e non sapranno compiere scelte sensate nella sfera privata e professionale […]; se viene compiuto lo sforzo di creare un lessico adeguato, e se ogni specialista impara quantomeno a prevedere, a partire da un diverso retroterra, i problemi che potrebbero assillare i colleghi, le probabilità che si formi un gruppo di lavoro produttivamente orientato a uno scopo  aumentano nettamente» (Gardner, 2007).
Nel suo recentissimo La musica è un tutto. Etica ed estetica, il famoso pianista e direttore d’orchestra Daniel Barenboim ci consegna poi alcune interessanti riflessioni: «Un brano musicale è un tutto organico, dove ogni aspetto si relaziona all’altro. La musica non può essere smembrata nei suoi elementi costitutivi; non può esistere melodia senza ritmo, melodia senza armonia, armonia senza ritmo e così via. […] Nel fare musica, se un elemento si disconnette dagli altri, automaticamente viene meno l’idea di un tutto. Non appena questo tutto integrato svanisce, il pezzo non può più essere considerato musica nel senso più pieno e profondo del termine» (Baremboim, 2013).
Dal canto suo, Urie Bronfenbrenner ci consegna l’immagine del contesto educativo come un ecosistema in cui le persone sono legate da complesse interazioni e scambi. Inoltre, nel processo di sviluppo della persona, vi è uno stretto rapporto dinamico tra uomo e ambiente. Qui giova ricordare, dal Dizionario Treccani, il significato di sistema, ovvero, «nell’ambito scientifico, qualsiasi oggetto di studio che, pur essendo costituito da diversi elementi reciprocamente interconnessi ed interagenti tra loro o con l’ambiente esterno, reagisce o evolve come un tutto, con proprie leggi generali».

Concludo il panorama con un altro sociologo e filosofo, il summenzionato Edgar Morin, con un inciso della medesima opera citata in precedenza: «Gli sviluppi disciplinari delle scienze non hanno portato solo i vantaggi della divisione del lavoro, hanno portato anche gli inconvenienti della super specializzazione, della compartimentazione e del frazionamento del sapere. Non hanno prodotto solo conoscenza e delucidazione, ma anche ignoranza e cecità. Invece di opporre correttivi a questi sviluppi, il nostro sistema d’insegnamento obbedisce loro. Ci insegna, a partire dalle scuole elementari, a isolare gli oggetti (dal loro ambiente), a separare le discipline (piuttosto che a riconoscere le loro solidarietà), a disgiungere i problemi, piuttosto che a collegare e integrare» (Morin, 2000). E a volte anche a separare gli alunni, aggiungo io!

Della statistica
Da quelle che mi piace definire “intercettazioni ambientali”, ho potuto captare questo dialogo, versione moderna dei Bisogna Etichettare Sempre.

Dialogo tra un docente e uno specialista

«Nella mia classe ci sono: 1 ASPERGER, 1 DSA, 1 ADHD, 1FIL, 4 STRANIERI di cui 1MAR 1EST 1CIN 1 di COLORE, 2 con disagio che glieli raccomando. E poi ci sono gli altri 14, normodotati, tra cui si celano un paio di demotivati».

Sull’argomento lascio parlare Bauman: «… non soltanto le unità di un certo tipo sono in maggioranza, ma esse sono come “dovrebbero essere”; sono “giuste e appropriate”; al contrario, quelle che difettano dell’attributo in questione sono “come non dovrebbero essere” – “sbagliate e inappropriate… […] Il passaggio dalla “maggioranza statistica” (un’enunciazione di fatto) alla “normalità” (un giudizio di valutazione), e dalla “minoranza statistica” alla “anormalità”, attribuisce una differenza di qualità alla differenza nei numeri: essere in minoranza significa anche essere inferiori…» (Bauman, 2012). Non ritengo di dover aggiungere altro in quanto i concetti sono molto chiari.

Un altro punto di vista con cambio di paradigma
Ho scelto questa lunga introduzione perché c’è bisogno, a mio avviso, di ritrovare un ancoraggio speculativo che indaghi le ragioni che hanno portato la scuola italiana sulla via dell’integrazione. Senza questi e altri ripensamenti, c’è il rischio di andare a una deriva, facendo prevalere le ragioni cliniche su quelle pedagogiche. E c’è altrettanto bisogno che il corpo insegnante ritorni in primo piano a svolgere il compito che ad esso compete: quello dell’intellettuale. Inteso come figura che non si accontenta di gestire la quotidianità, ma agisce con una visione che sa andare oltre gli ostacoli.
La scelta di ammettere tutti gli alunni nella nostra scuola aveva ragioni pedagogiche che man mano si sono consolidate perché per molti anni abbiamo lavorato in situazione di work in progress [“lavoro in corso”, N.d.R.]. E mi avvalgo di alcune esemplificazioni. Sono un testimone privilegiato perché ho cominciato a fare sostegno nel lontano 1974, ancora prima della normativa. Erano i primi esperimenti di  quello che verrà chiamato “inserimento selvaggio”. Senza quel coraggio, o incoscienza (ai Lettori l’ardua sentenza!), staremmo ancora interrogandoci, come fanno i francesi, sull’opportunità o meno di procedere. Certo, in quel momento ci si accontentava della socializzazione, ma in capo a pochi anni – e proprio perché le persone con disabilità erano con tutti – ci siamo resi conto che la socializzazione non bastava. E abbiamo aggiunto l’autonomia e l’apprendimento. Nel frattempo, nel 1975, quando la politica pensava e proponeva (bei tempi!) una commissione senatoriale, presieduta dalla senatrice Franca Falcucci, elabora un documento di alto valore umano in quanto fa prevalere lo sguardo pedagogico.
Un documento di questo genere, soprattutto nella prima parte, lo renderei lettura obbligatoria per tutti gli insegnanti. Lì dentro ci sono tutti i presupposti teorici per la scuola che oggi definiamo inclusiva. E non per un gioco di parole, ma perché l’esperienza dell’integrazione ci ha dimostrato la necessità di mettere in primo piano la persona nella sua interezza, bio-psico-sociale. Questo significa che la scuola italiana ha precorso quello che l’ICF ha codificato venticinque anni dopo. E ha precorso anche la scoperta dell’importanza dell’imitazione per l’apprendimento, dimostrata dalla scoperta, tutta italiana, della teoria dei “neuroni specchio”.
Ritornando al “Documento Falcucci”, non posso esimermi dal riportarne alcuni stralci:

«La preliminare considerazione che la Commissione ha ritenuto di fare è che le possibilità di attuazione di una struttura scolastica idonea ad affrontare il problema dei ragazzi handicappati presuppone il convincimento che anche i soggetti con difficoltà di sviluppo, di apprendimento e di adattamento devono essere considerati protagonisti della propria crescita. In essi infatti esistono potenzialità conoscitive, operative e relazionali spesso bloccate degli schemi e dalle richieste della cultura corrente e del costruire sociale».
[…]
«… La scuola proprio perché deve rapportare l’azione educativa alle potenzialità individuali di ogni allievo, appare la struttura più appropriata per far superare la condizione di emarginazione in cui altrimenti sarebbero condannati i bambini handicappati, anche se deve considerarsi coessenziale una organizzazione dei servizi sanitari e sociali finalizzati all’identico obiettivo. Questo impegno convergente si impone preliminarmente sotto il profilo della prevenzione anche in senso diagnostico, terapeutico ed educativo da realizzarsi fin dalla nascita ed in tutto l’arco prescolare, specialmente nei confronti del bambino che abbia particolari difficoltà; sia per circoscrivere, ridurre ed eliminarne le cause, ove possibile, nonché gli effetti di esse; sia per evitare l’instaurazione di disturbi secondari…».
[…]

Franca Falcucci

Nel 1975, la senatrice Franca Falcucci presiedette la Commissione che elaborò un importante documento sulla scuola

«… La scuola può contribuire a quest’opera di prevenzione e di recupero precoce, con la generalizzazione dalla scuola materna (anche se non obbligatoria) che, oltre ad offrire al bambino l’occasione di un più articolato processo di socializzazione, può favorire la tempestiva prevenzione ed il superamento delle difficoltà che possono ostacolare lo sviluppo psicofisico…».
[…]
«… Il superamento di qualsiasi forma di emarginazione degli handicappati passa attraverso un nuovo modo di concepire e di attuare la scuola, così da poter veramente accogliere ogni bambino ed ogni adolescente per favorirne lo sviluppo personale, precisando peraltro che la frequenza di scuole comuni da parte di bambini handicappati non implica il raggiungimento di mete culturali minime comuni. Lo stesso criterio di valutazione dell’esito scolastico, deve perciò fare riferimento al grado di maturazione raggiunto dall’alunno sia globalmente sia a livello degli apprendimenti realizzati, superando il concetto rigido del voto o della pagella…».
[…]
«… Condizione essenziale è che tutti gli operatori, docenti e specialisti, lavorino in équipe per l’attuazione dei finì indicati, e per tutti gli interventi ritenuti necessari onde evitare che il loro apporto si vanifichi in generiche ed unilaterali iniziative…».

Questi presupposti, che hanno dato un grande contributo al miglioramento della scuola italiana, sono validi tutt’oggi, come nell’ampia introduzione è, a mio avviso, ben dimostrato. E per questi motivi ritengo i recenti documenti – che sono la scaturigine di molte riflessioni – un passo indietro.
Alcuni anni fa ho contribuito, con uno scritto, a un libro in cui si definisce la scuola inclusiva in questo modo: «L’educazione inclusiva mira a garantire la partecipazione di tutti gli alunni nel processo di apprendimento in quanto persone e non perché appartenenti a una “speciale” categoria”». Come si può immaginare, non posso che condividerla fino in fondo, anche perché dentro c’è il motivo delle mie perplessità intorno alle ultime Direttive Ministeriali. Perché alle tante sigle – che suonano come “antibiotici” – ne abbiamo aggiunta un’altra che sta già entrando nel linguaggio comune perché di facile pronuncia: BES. Se notate, tutte le sigle hanno una connotazione sottrattiva e con al centro il disturbo (vedi quanto scritto precedentemente, nel paragrafo Della statistica). Ma se proprio vogliamo usare una sigla perché non possiamo farne a meno, propongo di usare Bisogni Educativi Individuali, restando nel solco della nostra tradizione e applicando con coerenza i fondamentali dell’ICF e della scuola inclusiva.
Quali sono le altre ragioni delle mie perplessità, sulle quali sarò disposto a ricredermi se qualcuno riuscirà a convincermi?

Della formazione
«La convinzione che l’adulto educato non abbia più bisogno di leggere la si ritrova chiaramente nella cosiddetta “teoria del cammello” seconda la quale, prima di incominciare il viaggio della vita [o dell’insegnamento, N.d.A.], riceviamo tutto il nutrimento mentale [o professionale, N.d.A.] di cui abbiamo bisogno per attraversare l’intero percorso» (Guerrini, 2011).
Un’operazione di rinnovamento/cambiamento, condivisa o meno, non può rinunciare al supporto della formazione di tutti gli insegnanti. Ma sappiamo che la formazione non è obbligatoria. Che cosa aspettiamo a reintrodurre questa pratica, senza la quale la presunta svolta cadrà ancora una volta sulle spalle dei più volenterosi e dei GLH [Gruppi di Lavoro Handicap, N.d.R.]? (Che è bene ci siano e che soprattutto funzionino). Ancora una volta, infatti, l’approccio non sarà olistico, ma settoriale. Con la probabilità che le aule di sostegno diventino le “aule BES”! E che ancora una volta il contesto non venga preso in considerazione. Con buona pace di Bruner, Bronfenbrenner e dell’ICF.
Ritengo utile ripassare la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: «Disabilità: conseguenza o risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo e i fattori personali e i fattori ambientali che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo». Si tratta di una definizione che ci aiuta a comprendere la necessità di cambio del paradigma, spostando l’intervento dal bambino in difficoltà al contesto, che si deve interrogare se sta facendo tutto quello che può fare sul piano umano, pedagogico e didattico. Perché le differenze non si trasformino in diseguaglianze (Ministero della Pubblica istruzione, Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione, settembre 2007).

Della valutazione
Il precedente passaggio apre lo sguardo sul tema della valutazione/autovalutazione. Per ora l’unica valutazione strutturale è quella che riguarda l’alunno. Se non entra in campo anche la valutazione dei processi, ancora una volta in discussione ci sono i disturbi e non i contesti. Ho letto, con piacere, che qualcosa si sta muovendo in questa direzione, ma su questo non sono ancora bene informato.
C’è poi la questione dell’“incompiuta” ovvero della scuola dell’autonomia. Mi sembra di vedere ancora lontano lo spirito di una scuola legata al dialogo con il proprio territorio. Mi sembra di vedere ancora troppo marcata l’attesa messianica delle Circolari. E questo coinvolge anche le responsabilità di un tessuto socio-politico molto attento ad altre istanze non propriamente educative.
Lascio sullo  sfondo il problema del reclutamento, che tuttavia meriterebbe un serio ripensamento. (Della serie: “la vita non è tutta in un quiz”!).

Del fare e non del disfare: un aiuto dal sociale
Da un paio d’anni sono abbonato alla rivista «Animazione Sociale» che consiglio caldamente a tutti i Lettori, perché si occupa, con competenza, anche di temi legati alla scuola. Qui di seguito ne riporto una serie di interventi, estrapolati da alcune interviste a docenti universitari.

Intervista a Paola Di Nicola, sociologa, docente dell’Università di Verona
(da «Animazione Sociale», n. 262, aprile 2012)
:
«Senza reti nessuno si salva in quanto: 1. Le reti forniscono identità e aiuto materiale. 2. Mettere la lente sulle reti di cui le persone dispongono è cogliere un aspetto cruciale del vivere contemporaneo. 3. Si è buone madri perché si ha una rete intorno (rete di prossimità). 4. Nelle reti troviamo la possibilità di essere riconosciuti dagli altri. 5. Chi ha meno reti sono i gruppi sociali più deboli».

Intervista a Vanna Iori, professore ordinario di Pedagogia Generale e Sociale
Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (da «Animazione Sociale», n. 268, dicembre 2012):

«Siamo al tacito predominio del già noto, all’esasperazione della sola dimensione normativa che, assunta a principio ispiratore, finisce per perpetuare se stessa anche nell’età adulta, come se sempre si avesse bisogno della “stampella” normativa”»
[...]
«L’evento imprevisto sovverte il progetto previsto e la possibilità formativa dell’evento sfugge al controllo, alla verifica, alla razionalizzazione e all’istituzionalizzazione».
[…]
«Afferma Hannah Arendt che nell’educazione si decide se noi amiamo i nostri figli “tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi; e prepararli al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti”».

Altra cosa sarebbe pensare plurale
(Intervista ad Andrea Canevaro, pedagogista dell’Università di Bologna, da «Animazione Sociale», giugno/luglio 2012):

«Vi è una grave carenza di competenza per un agire cooperativo, al di là della disponibilità soggettiva».
[…]

Andrea Canevaro

Andrea Canevaro, pedagogista dell’Università di Bologna

«Non esiste un punto di vista che comprenda in sé tutte le prospettive. Piuttosto esistono versioni multiple che a volte possono convivere in relativa armonia fino a produrre insieme pensieri complessi, plurali al loro interno, che aiutano a comprendere meglio la situazione, altre volte sono inconciliabili l’una con l’altra, come quando ogni operatore continua a descrivere la realtà unicamente dentro il suo linguaggio».
[…]
«Un servizio deve contaminarsi e darsene ragione in quanto la contaminazione è propria dei sistemi complessi che cercano vie di uscita dai problemi».
[…]
«È lo specialismo una vera e propria malattia endemica. Proponiamo la competenza solidale».

Mi è capitato di lavorare alla stesura di Accordi di Programma, previsti dalla Legge 104/92. Quando sono emerse le competenze solidali, il lavoro ha dato i suoi frutti.

La classe come sfondo ovvero l’“arte del mescolare”
Non ho commentato volutamente i passi del precedente paragrafo perché sono molto chiari e pieni di indicazioni. E soprattutto mettono in primo piano la necessità della contaminazione come caratteristica della rete. Io la chiamo l’“arte del mescolare”: le competenze, le capacità, le abilità, i linguaggi, le discipline, i saperi, le conoscenze, i facilitatori, le barriere, le performance, i dubbi, le incertezze. Degli insegnanti e degli alunni. E, come dice bene Paolo Perticari, in un percorso di riconoscimento: «L’ educatore, senza imporre la propria mentalità, dovrebbe riuscire a realizzare una comunicazione autorevole, in cui a ciascun partecipante sia data la possibilità di “mettere in comune”. Per fare ciò bisogna riconoscere all’altro lo stesso valore e la stessa dignità che si riconosce a se stessi. Ogni conoscenza reciproca deve sviluppare non un adattamento unilaterale, ma vicendevole. Questa reciprocità può consentire un’evoluzione più armonica del vivere insieme» (Perticari, 2008).
Per questo modus operandi bisogna condividere spazi comuni che non sono solo fisici, in quanto la scuola non deve vivere la progettualità di percorsi innovativi come un’azione esterna al curricolo. Personalmente credo che il curricolo debba avere la caratteristica dell’innovazione. Progetti eccezionali, ma esterni al curricolo, sono destinati a vivere nella nicchia delle buone prassi come “icone da adorare”, ma impossibili da essere di stimolo alla quotidianità del lavoro, in classe con tutti gli alunni, perché irraggiungibili.
In questo clima, la classe come sfondo significa:
– il programma come strumento e non come fine;
– non ci sono categorie di alunni, ma la classe come comunità educante: didattica collaborativa;
– riconoscimento del diritto alla diversità;
– sublimazione dei concetti di  personalizzazione,  di individualizzazione, di eccellenza, di potenzialità;
– riconoscimento all’alunno dello status di attore nel processo educativo.

Degli insegnanti
Se avessi voluto rimanere negli schemi consueti, avrei dovuto titolare il paragrafo Dell’insegnante di sostegno, ma voglio restare coerente con il resto dello scritto. Anche qui, infatti, intendo cambiare paradigma e preferisco parlare del contesto.
In una scuola in cui esiste la collegialità, il problema del coinvolgimento dell’insegnante di sostegno (ricordiamoci sempre che la Legge 517/77 parla di «insegnanti specializzati per le attività di sostegno» e che l’insegnante in questione è «contitolare») non si pone perché la normativa è molto chiara. Il problema, quindi, è il contesto inadeguato, quando non si avvale della procedura collegiale.
Noi possiamo anche chiamarlo in modo diverso, ma io sono dell’idea che dobbiamo cominciare, come primo passo, a dividere il numero degli insegnanti di sostegno sul numero totale degli alunni. In altre parole, non ci sono 100.000 insegnanti di sostegno per 215.000 alunni con disabilità, ma sono da considerare a disposizione per gli oltre 7 milioni di alunni della scuola italiana. Se poi la scuola li utilizza come badanti, è la scuola che deve cambiare l’operatività e applicare la normativa. Ricollocare il sostegno con alchimie non troppo chiare significa aggirare l’ostacolo.
In tali problematiche, mettere in pratica l’auspicato processo di valutazione/autovalutazione aiuterebbe a capire il contesto per poter intervenire ad hoc. Per esempio, il sostegno può essere gestito, in alcuni casi, anche dagli insegnanti curricolari, in possesso di competenze particolari.

La deriva legislativa
Ecco dove si è spostata la nostra attenzione: sulla questione del certificato. Non Basta Essere Studenti, Bisogna Essere Speciali perché la scuola intervenga? Mi è stato detto che per i Piani Personalizzati non era sufficiente la Legge 53/03, in quanto priva  dei decreti applicativi. Mi chiedo: non era più semplice farli, piuttosto che aprire una fase legislativa con la 170/10 [Legge per gli alunni con DSA – Disturbi Specifici dell’Apprendimento, N.d.R.]? E ora, logica conseguenza, si vocifera che sia in preparazione una legge per gli alunni ADHD [Disturbi da Deficit di Attenzione e Iperattività, N.d.R.]. E ne verranno inevitabilmente altre, se non si cambia paradigma.
Personalmente questa deriva legislativa l’ho prevista nel lontano 2007, quando si ipotizzava appunto la legge per gli alunni con DSA. (Nota: mi preme precisare che per quanto di mia competenza, prevista dal mio ruolo istituzionale, ho sempre puntualmente fatto applicare la legge sunnominata).

Le fatiche della scuola
Prevedo che qualcuno mi farà osservare che la scuola reale è un’altra. La mia risposta è molto semplice: se la realtà non fosse diversa, non faremmo queste discussioni. Io credo, al contrario, che si debbano recuperare due dimensioni molto importanti: l’assunzione di responsabilità personale e la consapevolezza delle fatiche della scuola.

Ralf Dahrendorf

Ralf Dahrendorf (1929-2009)

La prima è una dimensione molto importante in quanto i professionisti della scuola, dirigenti e insegnanti, i collaboratori scolastici, gli amministrativi, lavorano in un campo in cui si preparano i Cittadini del futuro. E tutti insieme abbiamo il dovere di preparare un contesto in cui il giovane Cittadino possa intravedere un futuro come promessa e non come minaccia.
Per la seconda dimensione, mi avvalgo di un documento della scuola del Regno Lombardo-Veneto, datato 3 settembre 1859. È il Concorso Pel rimpiazzo del sotto indicato impiego vacante nella Scuola elementare del Comune di Corzano [in provincia di Brescia, N.d.R.]. Per partecipare bisognava presentare «la relativa istanza corredata dei seguenti documenti: I° Patente di abilitazione all’insegnamento proprio del posto cui aspira. 2° Fede di nascita. 3° Attestato medico comprovante la fisica attitudine del concorrente a sostenere le fatiche della scuola». (Stipendio annuo: lire 250).
Il terzo punto è straordinariamente attuale in quanto la professione insegnante, oggi, tra le professioni d’aiuto, è quella più esposta alla sindrome da burnout [processo di stress che colpisce le persone che esercitano professioni d’aiuto, N.d.R.].

Un manifesto per la scuola inclusiva
Dahrendorf
ci insegna che «la libertà non è mai un soffice cuscino sul quale ci si possa adagiare o dare a un godimento passivo; è sempre una sfida all’attività». Io credo che lo si possa dire anche per la scuola inclusiva. Ma c’è l’esigenza di elaborare i fondamentali e in merito ho fatto alcune proposte, su cui lavorare.
Senza la consapevolezza di dove si vuole andare, c’è il rischio di prendere pericolose scorciatoie. L’esperienza italiana – la cui valenza è riconosciuta internazionalmente – rischia di essere messa in liquidazione, se si emanano provvedimenti che rispondono più al mercato e/o alle lobby professionali. In ballo c’è un valore non negoziabile: la solidarietà. Una scuola che non sa essere solidale è una scuola senz’anima, che rinuncia alla sua mission. Per questo c’è bisogno di un manifesto frutto del contributo di tutti. A partire dagli studenti con le loro famiglie. Un manifesto che preveda anche la revisione dell’impianto normativo in tema di disabilità. Ma che, soprattutto, sappia andare oltre gli specialismi e gli specialisti che lavorano con il teleobiettivo, con alte probabilità di creare gated communities [“comunità chiuse”, N.d.R.]. Se, al contrario, vogliamo fondere gli orizzonti, c’è bisogno del grandangolo.

Finale con brio
«Ai bambini buoni la dolce Euchessina»: la pubblicità della dolce Euchessina, stimolante lassativo, nacque, negli Anni Sessanta, con uno slogan che escludeva i bambini cattivi dalla possibilità di avvalersi della medicina. In seguito, l’azienda, resasi conto del messaggio morale nei confronti dei bambini cattivi, corresse il tiro, precisando: «Non esistono bambini cattivi, esistono solo bambini indisposti». Come si vede, lo stile dell’etichettatura proviene da lontano!
Post Scriptum: Il prodotto, dopo un buon periodo di vendite, venne ritirato dal mercato perché si scoprì che conteneva una sostanza dannosa. La tentazione di lasciarlo in commercio solo per i bambini cattivi è stata forte!

Post Scriptum conclusivo: Ho scoperto recentemente il Progetto BES, nato da un’iniziativa del CNEL e dell’ISTAT. Una coincidenza intrigante, perché l’acronimo ha una traduzione veramente interessante: Benessere Equo Sostenibile. Per misurarlo, sono state individuate dodici dimensioni del benessere, tra cui quella riferita all’istruzione e alla formazione.
Tradotta in pratica, la scuola è una dimensione inclusa in quella più ampia della qualità della vita e quindi è oltremodo giustificata la contaminazione o arte del mescolare, interna ed esterna, di cui si parla nel presente articolo. In altre parole, il processo educativo può dare il proprio contributo alla costruzione del Benessere Equo Solidale nella scuola di tutti, attraverso un intervento coerente con i Bisogni Educativi Individuali di ciascuno.

Presidente del CNIS di Brescia (Coordinamento Nazionale degli Insegnanti Specializzati e la Ricerca sulle Situazioni di Handicap).

Bibliografia
– Alberti, Leon Battista
, De pictura, 1435 (testo liberamente adattato).
– Barenboim, Daniel, La musica è un tutto, Milano, Feltrinelli, 2013.
– Bauman, Zygmunt, Fiducia e paura nella città, Milano, Bruno Mondadori, 2005.
– Bauman, Zygmunt, Conversazione sull’educazione, Spini di Gardolo (Trento), Erickson, 2012.
– Bruner, Jerome Seymour, Il conoscere. Saggi per la mano sinistra, Roma, Armando, 1968.
– Dahrendorf, Ralf, Libertà attiva. Sei lezioni su un mondo instabile, Roma-Bari, Laterza, 2005.
– Gabelli, Aristide, Istruzioni per l’applicazione dei programmi della scuola elementare, 1888.
– Gardner, Howard, Cinque chiavi per il futuro, Milano, Feltrinelli, 2007.
– Guerrini, Mauro (a cura di), Leggere Ranganathan, Roma, AIB, 2011.
– Montessori, Maria, Il metodo della pedagogia scientifica, Città di Castello, Lapi, 1909.
– Morin, Edgar, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Milano, Raffaello Cortina, 2000.
– Perticari, Paolo, La scuola che non c’è, Roma, Armando, 2008.
– Rousseau, Jean-Jacques, Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini, 1755.
– Sèguin, Edouard, Traitement moral, hygiène et éducation des idiots et des autres enfants arriérés, 1846.

Sitografia
– «Disabilità Intellettive»
è un sito molto interessante in quanto vi si può leggere una preziosa rassegna sullo stato della ricerca internazionale che riguarda la presenza degli alunni con disabilità nelle classi comuni. I risultati sono sorprendenti e sfatano molti luoghi comuni. Un’ulteriore conferma che in Italia avevamo visto giusto.
– Nella recente Circolare Ministeriale 8/13 del 6 marzo, è citato il sito «Quadis». Il progetto, dell’Ufficio Scolastico Regionale della Lombardia, è stato elaborato e implementato attraverso una decina di anni di lavoro. Ha visto all’opera diversi insegnanti e dirigenti di ogni ordine e grado. Ne è uscita un’articolata proposta, che prevede un processo di autovalutazione sul funzionamento complessivo della scuola, con attenzione sia al curricolo esplicito che a quello implicito.

Filmografia
– A Beautiful Mind
, di Ron Howard, Gran Bretagna, 2001 (140’).
– Freaks, di Tod Browning, Stati Uniti, 1932 (64’)
– La zona, di Rodrigo Plà, Spagna-Messico, 2007 (97’).
– Le chiavi di casa, di Gianni Amelio, Italia-Francia-Germania, 2004 (105’).
– Miracolo a Le Havre, di Aki Kaurismäki, Finlandia-Francia-Germania, 2011 (93’).

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