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Tornare a vedere il mondo

"Il mondo in una goccia" (foto di Oriella Orazi)

“Il mondo in una goccia” (foto di Oriella Orazi)

“Tornare a vedere il mondo” è un titolo volutamente provocatorio. Chi scrive, infatti, è una persona ipovedente gravissima, una di quelle che il mondo lo vede come una macchia confusa di colori. E tuttavia, il titolo è giusto e non intendo cambiarlo. Perché non si può essere individui senza avere un modo di vedere il mondo, e vedere il mondo non è frutto solo della vista.
La vista è di sicuro uno dei sensi più importanti nell’uomo ed è stato dimostrato che la sua evoluzione è stata importante nel corso della vita umana. Non mi sogno certo di affermare il contrario. E tuttavia non è l’unico senso e la sua scomparsa, o meglio la sua forte riduzione in un individuo, non ne distrugge la capacità di immaginazione. L’immaginazione, infatti, è una sinergia tra i nostri sensi, il cervello e la mente, cioè il modo in cui il cervello esprime se stesso.
I sensi, tutti, inviano segnali che, nel cervello, costruiscono delle aree e sono queste aree, poi, a costruire l’immagine particolare del mondo a modo nostro. Per definire però questa immagine, noi ci serviamo ancora di parole e categorie che condividiamo con altri, ed è qui che intervengono due fattori che – soprattutto in chi acquisisce una disabilità visiva da adulto – contribuiscono a negare ai disabili visivi una partecipazione del mondo piena e soddisfacente.
Da una parte, moltissime parole appartengono a categorie che, negli anni, hanno ristretto il loro significato ai meri elementi visivi. Quando si parla ad esempio di “bello”, le prime cose che vengono in mente sono criteri estetici visibili immediatamente, e lo stesso si può affermare della categoria contraria. Il giudizio del bello è quindi in qualche modo derogato ai vedenti, mentre a chi non ha una vista perfetta non si concede di possedere un giudizio estetico.
Il secondo fattore è che anche i disabili visivi contribuiscono spesso a ridurre la loro esistenza alla sopravvivenza e alla nostalgia, soprattutto se sono diventati tali da adulti. In questo una grande responsabilità ce l’ha chi è intorno alle persone con disabilità, non escluse le associazioni: ricordo ancora che quando diventai fortemente ipovedente, mi si parlò subito del corso di braille (non quello di mobilità, che mi fu proposto, a pagamento, molto dopo) e mi fu detto di iscrivermi a un corso di centralino. Nessuno, però, cercò di spiegarmi come avrei dovuto riprendere in mano i miei sogni e la mia capacità di vedere il mondo.
Avevo già trent’anni, suonicchiavo il pianoforte e scrivevo. Non ho ripreso il pianoforte: troppo duro imparare a leggere gli spartiti in braille. Ho continuato a scrivere, ma, per mesi, non sapevo di cosa. Non aveva senso, infatti, scrivere come se il mondo fosse stato lo stesso di prima: sarebbe stata una bugia e a nessuno intorno a me sembrava importare che cercassi disperatamente di ricostruire le categorie che mi avrebbero permesso di creare.
Scrivere è ricombinare gli elementi della vita fino a indurre una nuova creazione: ma gli elementi della vita sono quelli che derivavano dai miei sensi. Intorno a me, un mondo prevalentemente visivo mi diceva di mentire e di descrivere, per dare vita a un’immagine di lucente bellezza, un tramonto in riva al mare o un roseto in maggio. Ma entrambe queste immagini – pur resistendo nella mia memoria – non erano più vive nel mio mondo sensoriale.
Che cosa mi ha salvata? Per me immaginare era una questione di sopravvivenza quanto usare una sintesi vocale per leggere: così ho sviluppato un mio metodo, che mi piacerebbe condividere con i Lettori.

Prima di tutto, con dolore ma con fermezza, rinunciate alle categorie di quando eravate vedenti: anche se ricordate quanto è bello un tramonto, questa immagine non può formare nuovi intrecci nella vostra mente, è una “melodia chiusa” e come tale va vissuta; potete suonarla e risuonarla, ma non può essere ricreata. Il nuovo “bello” quello che, ricreato e risuonato, può essere fruito da voi, è frutto dell’intreccio degli altri sensi.
Io ho scoperto, per esempio, che la pioggia è bella. Non rilassante, come magari pensano i vedenti, ma proprio bella. Ogni cosa, nella pioggia – sia in quella sottile che in quella più fitta d’autunno o primavera – ha un suono diverso e acquisisce una sua forma. Basta un rettangolo di verde, anche in città, a sprigionare ogni sorta di profumo. Mentre piove, la vita acquista per il nostro udito, per l’olfatto, per il tatto, una varietà multiforme e di un fascino indiscusso. Ecco, la pioggia è stata la prima realtà nuova del mio mondo di ipovedente grave.
E poi il vento: le sue forme sono variegate e ognuno ha la sua voce particolare; il vento parla migliaia di lingue ed è una danza continua sulla pelle. Ogni parte della pelle reagisce in maniera diversa ad esso, a seconda della sua natura, ma anche della nostra predisposizione d’animo.

Non si devono andare a cercare lontano, queste realtà così variegate e ricche di sensazioni, ognuno è in grado di eseguire questo compito a casa! Anche i vedenti? Certo, anche loro e direi soprattutto.
Spesso si cerca di fare comprendere il mondo dei ciechi e degli ipovedenti attraverso cene o merende al buio, come se la mancanza di luce fosse l’unica caratteristica del mondo immaginativo dei ciechi, una caratteristica per altro negativa. E invece, per sentire la pioggia, per ascoltare il vento, non avete bisogno di bende, ma del desiderio di ampliare la vostra realtà e di non ingabbiarla nella sola vista. Non è una bella idea? I ciechi che arricchiscono e liberano il mondo? Provate a pensarci, ne riparleremo.
E prossimamente proveremo a chiedere: quante città esistono? Una, nessuna o… centomila…

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