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Uno sport da duri (come Ahmed), anche in carrozzina

Ahmed Rourahi in azione con la maglia della Nazionale Azzurra di rugby in carrozzina

Ahmed Rourahi in azione, durante una partita della Nazionale Italiana di rugby in carrozzina

C’è uno sport che chiamano Murderball e il nome fa capire quanto possa essere duro. Ci hanno fatto anche un film. Si gioca in carrozzina e alle Paralimpiadi è fra i più seguiti. È l’unico sport di squadra per atleti tetraplegici o comunque con una disabilità che coinvolga insieme arti inferiori e superiori. È in pratica il rugby in carrozzina, noto anche come wheelchair rugby o quad rugby negli Stati Uniti. È nato in Canada nel 1977. Un gruppo di ragazzi tetraplegici che non riusciva bene a giocare a basket in carrozzina cercava un’alternativa. Ne inventarono uno, prendendo regole e forme da basket, hockey, pallamano, ma che prevedesse, come nel rugby, il contatto duro. Anche con le carrozzine. Dal 2011 la FISPES, una Federazione Paralimpica [esattamente Federazione Italiana Sport Paralimpici e Sperimentali, N.d.R.], ha cominciato a farlo provare in Italia e ora, a settembre partirà il primo campionato.
Dal canto suo, la Nazionale ha chiuso una decina di giorni fa i primi Campionati Europei ad Anversa, in Belgio, con una vittoria storica, la prima finora ottenuta, arrivando undicesima, dopo avere battuto nella finalina la Repubblica Ceca. Ma l’importante era esserci. Una bella Nazionale, con gente che ha voglia e che ama lo sport. Come Ahmed, italiano dal Marocco, in Italia per sport prima e amore poi.

«Niente paura». Il Liga lo ascolta spesso, Ahmed. «Ci pensa la vita, mi han detto così». Non solo parole di una canzone, per Ahmed. «La mia preferita».
Sognava Romario. E Ronaldo. Tifava Barcellona prima e Inter poi. «Eh sì, il calcio». In Marocco si vedevano le loro partite. Anche in un piccolo paese come il suo, Douar Douamer, 100 chilometri da Tangeri e un centinaio di abitanti. «Il basket non mi piaceva molto». Ha imparato ad amare due che sono stati sull’olimpo: Michael Jordan, fra quelli che giocano in piedi, e Patrick Anderson, leggenda del basket in carrozzina. Lo ha conosciuto. Perché Ahmed Rourahi è stato a Londra 2012. Con la maglia azzurra alla Paralimpiade. A tirare, passare, prendere rimbalzi. Seduto. «Il basket in carrozzina è la mia vita».
Ma c’è anche altro, naturalmente. C’è Roberta: trovata, amata, sposata. Lui musulmano, lei cattolica. «Io vado in moschea, Roberta in chiesa». Prima della Paralimpiade, il Ramadan. Anche in ritiro. Pochi mesi dopo i Giochi, ecco un altro sport da far innamorare. In Italia comincia a essere praticato il rugby in carrozzina. Si parte dal Veneto, la zona dove vive Ahmed. E così ecco una nuova avventura sportiva da cominciare. Fino a vestire anche qui la maglia azzurra. Lui, italiano che arriva dal Marocco. Lui, che quelli che malpensano vedendolo lo chiamano magari “invalido”.

Era il ’91, doveva ancora compiere otto anni. Dopo la scuola aiutava suo padre. Il treno e il mercato. A vendere sacchetti. «Li mettevo in testa e partivo». Serve anche quello quando in famiglia ci sono altri cinque tra fratelli e sorelle. Quel giorno non doveva andare. «Papà non voleva. Il treno era di quelli vecchi, senza porte. Si fermò in una stazione pericolosa: c’erano sempre dei ladri». Si accorse che qualcuno tentava di strappargli i sacchetti. Fece resistenza. Il treno che partiva. La caduta. Le ruote che stritolano la carne. «Mi sono risvegliato all’ospedale di Ksar el Kebir. Senza gambe e senza la mano destra, mi mancava un pezzo di braccio».
Ed ecco la seconda vita. Per un bambino che stava facendo le elementari. «Sette mesi in ospedale, a casa altri quattro, poi la comunità a Tangeri. Ho imparato di nuovo a fare bene le cose». Tranne una: «Avevo una bella scrittura, ma con la sinistra non riuscivo».
In comunità è rimasto sino al 2004. «Vedevo la famiglia ogni quattro mesi, facevo le vacanze con loro». Lì ha cominciato a fare sport. «Il calcio: giocavo in porta, ne avevamo adattata una per me, che non avevo gambe. Ma giocavo anche fuori: difensore. Potevo colpire il pallone con le mani».
È lì che ha visto per la prima volta un canestro. Aveva 10 anni. «Prendevo il pallone e andavo al campo. Stavo lì delle ore. Da solo. A tirare. Mi fermavo per pranzo e poi tornavo. Se arrivava qualcuno facevamo una partita». A 14 anni la prima squadra, Nadi el Hana a Tangeri. Mentre giocava nel nord del Marocco è notato dagli spagnoli del Melilla. Comincia così la sua storia da professionista del basket in carrozzina. La terza vita.
Un suo ex compagno a Tangeri, Mohamed Bargo, poi con lui al Millenium Padova, lo segnala a Treviso. L’Italia è la scoperta della nuova vita. Altre squadre: Padova appunto, Santa Lucia Roma, poi di nuovo Padova. A Treviso incontra Roberta. «Vivevo in una comunità, Il Quadrifoglio. Lei era lì a fare assistenza. La vedevo alle nostre partite. Le raccontavo le trasferte. Ci frequentammo. Nel 2008 ci siamo sposati».
Ad aprile dello scorso anno è diventato italiano. Ed è subito entrato in Nazionale. Parla arabo, italiano, un po’ di spagnolo e francese. «Lo sport mi ha dato forse anche quello che mi è stato tolto e aiutato a superare la disabilità. Dopo l’incidente tutto era difficile, anche solo uscire per strada. Avevo perso i miei amici. Grazie allo sport sono uscito da questa situazione».
Lo sport paralimpico rovescia i luoghi comuni. Ahmed lo sa bene. «Mi vedono senza gambe e mano. Pensano: quello non è forte, non ce la fa…».

Testo apparso anche in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Il rugby sport da duri anche in carrozzina. La vittoria dell’Italia (e di Ahmed)”). Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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