Una società dove prevale la “cultura del rifiuto”

«A una società globalizzata che vive della “cultura del rifiuto” – scrive il neonatologo Carlo Bellieni, portando un ulteriore prezioso contributo al nostro dibattito su bioetica, disabilità, aborto e discriminazione – vorrei vedere opposta una società della solidarietà, che valorizzasse la persona malata, che accompagnasse la donna e che mettesse il malato e il bisognoso al primo posto nelle sue leggi finanziarie»

Corrado Delfini, "Il rifiuto", 2010, tecnica mista

Corrado Delfini, “Il rifiuto”, 2010, tecnica mista

Ho letto con interesse il documento del Comitato Nazionale di Bioetica della Repubblica di San Marino, L’approccio bioetico alle persone con disabilità, e il conseguente dibattito sulle pagine web di «Superando.it».
La domanda centrale che è emersa nel dibattito stesso è se l’aborto di feti con malattia abbia la forma della discriminazione. Riporto qui di seguito quattro punti, che certo non sono “vangelo”, ma che vogliono fare un po’ di serena chiarezza – già in buona parte fatta grazie ai contributi di chi mi ha preceduto -, essendo spunto per ulteriori commenti.

1. La società postmoderna è fondata sul criterio dell’autodeterminazione e dell’autonomia, tanto che chi ne è privo – secondo alcuni filosofi – viene reputato non avere neanche l’attribuzione della qualifica di persona. Questo porta a distinguere nel novero delle “non-persone” i feti, i neonati e coloro che non hanno un’autonomia decisionale e un’autocoscienza compiute.
La prima discriminazione, allora, non è nell’atto dell’aborto del feto malato, quanto nella divisione in “persona” e “non-persona” degli individui, selezione che può continuare anche dopo la nascita, in epoca neonatale: alcuni, infatti – accomunando feti e neonati – parlano di “aborto postnatale”, altri di lasciar vivere i bambini sulla base di una considerazione del bilanciamento tra futuri “pesi” e “vantaggi”, altri ancora sulla scelta dei genitori.

2. Si può non accettare questa divisione e dire comunque che il feto è depositario di meno diritti perché ancora “un progetto”; questa argomentazione, tuttavia, sembra cozzare con le evidenze fisiologiche che mostrano un’assenza di salti qualitativi tra feto e neonato, e in particolare tra feto e neonato nato prematuramente (cioè un feto che finisce il suo sviluppo fuori dall’utero).
Significativamente, l’ultimo numero del «Journal of the American Medical Association», nella sezione pediatrica (JAMA Pediatrics) ha un articolo intitolato The Continuing Importance of How Neonates Die, in cui una sezione si intitola How infants die prenatally, cioè “come i bambini muoiono in epoca prenatale”, che fa nascere la domanda: la morte prenatale riguarda allora dei bambini?

3. Un segno allarmante discriminatorio lo ravviso nell’attenzione data dalla società (e nei corrispondenti investimenti) verso sempre nuovi mezzi di identificazione genetica prenatale (senza intenti curativi), maggiore dell’attenzione riservata alla cura delle malattie genetiche e all’accoglienza del malato. L’ingresso nella sfera genetica prenatale può anche portare a soluzioni diverse che non l’aborto, ma non essendo fatto a fini curativi, esse sembrano cozzare con il diritto alla privacy dell’individuo: dopo la nascita, infatti, rischia di avere già svelato i segreti del suo codice genetico (oggi si può arrivare a mappare tutto il DNA), senza che lui lo abbia richiesto.
Ma la vera discriminazione è sulle pagine dei giornali e sui libri di scuola che censurano la disabilità e rendono normale e routinario il rifiuto del disabile prima che nasca e dopo che è nato, proprio perché non mostrano, non raccontano la disabilità, non lasciano parlare i malati, ma mostrano solo un mondo da “Happy Days”: tutto il resto è censura.

4. Sembra insomma che la società lasci solo due alternative di fronte a una gravidanza di un feto malato: aborto o solitudine, e questa è discriminazione non tanto verso il malato quanto verso la donna (e di conseguenza verso il figlio). Che scelta libera ci può essere? La vera discriminazione sta nel lasciare soli, nel non dare mille e mille risorse in più alla famiglia che attende un figlio disabile: troppo facile, per Governi e Istituzioni.
La società globalizzata vive della “cultura del rifiuto”, che non accetta il diverso: non accetta la donna in difficoltà e non accetta il bambino disabile, facendo ricadere sulle spalle della donna tutta la responsabilità della scelta in un senso o nell’altro. A questa vorrei vedere opposta una società della solidarietà, che valorizzasse la persona malata, che accompagnasse la donna, che mettesse il malato e il bisognoso al primo posto nelle sue leggi finanziarie, e che rendesse familiare nella cultura anche la figura del malato stesso.

Neonatologo.

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