Il lungo viaggio dell’assistenza domiciliare

«Credo – scrive Giorgio Genta – che entrambe le forme di assistenza domiciliare alle persone con disabilità e ai loro familiari-caregiver, sia quella diretta che quella indiretta, siano valide e possibili. Purché il supporto assistenziale sia congruo e la scelta lasciata alla famiglia, valutando assieme ad essa, caso per caso, la migliore strategia attuabile. Sempre “a casa”, naturalmente»

Sagome blu di un disabile in carrozzina e di un non disabileTra i molti viaggi che la “famiglia con disabilità” ha intrapreso negli ultimi decenni, indubbiamente il più lungo, complesso, ricco di soste e di percorsi, talvolta con qualche errore di rotta, ma soprattutto di itinerari tenacemente perseguiti, è quello attraverso l’assistenza domiciliare.
Oggi il termine è quanto mai di attualità nelle sue diverse denominazioni (Torniamo a casa; Restiamo a casa; Modello Sardegna; A casa mia; Assistenza domiciliare integrata; Assistenza domiciliare indiretta; La Cura Invisibile ecc.) e come tale oggetto anche di appropriazioni indebite, di travisamenti e di falsità.
Che l’assistenza domiciliare sia la più gradita forma di aiuto alla persona con disabilità grave o gravissima e alla sua famiglia-caregiver, talvolta composta da un solo genitore, è un’affermazione che, a mio parere, brilla di una luminosa verità. Naturalmente ciò non significa che debba essere una “verità di fede” imposta con la forza della legge degli uomini, ma che debba essere invece il frutto di una libera scelta da parte degli interessati.

L’argomento ha avuto tanta visibilità mediatica da suscitare l’interessamento di svariate lobby di false cooperative sociali che operano altrimenti – cioè nelle RSA [Residenze Sanitarie Assistenziali, N.d.R.] o strutture simili -, con modalità paragonabili a quelle di una multinazionale “classica”: utilizzano mano d’opera al minor costo possibile, concentrando il lavoro in enormi e fatiscenti fabbricati, edificati nel luogo con la legislazione fiscale più conveniente e praticamente in assenza di controlli.
Le “vere” cooperative sociali, quelle che alcune delle nostre famiglie gradiscono come compagne di viaggio, sono probabilmente assai più rare di quanto comunemente si creda. Intendo quelle con personale ben formato e giustamente retribuito (a proposito del divario tra paga percepita dal lavoratore, socio o no, e il costo del lavoro fatturato all’ente pagatore… lasciamo perdere, che è meglio), puntuali nell’assolvimento degli impegni assunti e rintracciabili telefonicamente, quando serve davvero, per ventiquattr’ore su ventiquattro.

Molte famiglie preferirebbero assumere direttamente la persona o le persone ritenute idonee, purché vi fosse un adeguato corrispettivo monetario da parte degli enti: qui le richieste variano, ma comunemente si riterrebbe equo venisse corrisposto metà del costo del ricovero in una struttura sanitaria realmente adeguata alle esigenze della persona assistita.
Questa forma di assunzione diretta, purché liberata dai troppi lacciuoli legislativi, avrebbe sicuramente una positiva ripercussione sul mercato del lavoro, con la creazione di molti nuovi posti. Permetterebbe inoltre di assicurare un miglior controllo sul trattamento fornito, evitando i mille drammi grandi e piccoli delle strutture residenziali.
Personalmente credo che le due forme, quella diretta e quella indiretta, siano entrambe valide e possibili. Purché il supporto assistenziale sia congruo e la scelta lasciata alla famiglia, valutando assieme ad essa, caso per caso, la migliore strategia attuabile. Sempre “a casa”, naturalmente.

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