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Il diritto di essere mamma

Giorgio Polykratis, "Madre e figlia" (particolare)

Giorgio Polykratis, “Madre e figlia” (particolare)

Ci sono storie che tornano, come portate da una marea. Storie che hai provato a scrivere più volte, ma che non se ne vogliono andare, perché non sei stata abbastanza brava o perché quell’ingiustizia non può essere sanata. Questa è una di quelle storie, rievocata in me da un fatto accaduto in Gran Bretagna e riportato dalle cronache nei giorni scorsi.

Ora avresti quindici anni, uno in meno di mio figlio. Ti ho vista solo in foto e ricordo una nuvola di capelli chiari, biondo cenere, e due occhi che somigliavano tanto a quelli della mia amica. La mia amica di allora, la tua vera mamma, che non so se tu hai mai rivisto.
Mi rivolgo a te, anche se non so dove sei, e forse questa lettera non la leggerai mai, proprio perché vorrei parlarti di tua madre. Io l’ho conosciuta a un’associazione culturale, in uno dei tanti momenti della mia vita di adulta in cui ho tentato di far parte di un gruppo. Devo dire che quell’associazione è stato uno dei tentativi più rapidi, risoltosi in pochi mesi con reciproca soddisfazione.
Era uno di quei posti in cui una sedicente poetessa trascorreva una parte della sua vita snob e annoiata scrivendo di farfalle e fiorellini e, soprattutto – ciò che era peggio – imponendo questa sua passione anche ad altri. La poesia di tua madre – come la mia di allora e come sarebbe comunque rimasta la mia scrittura – era invece “carne e sangue” e questa affinità di stile dava alla cara direttrice l’opportunità di farci uno scherzo crudele, confondendoci spesso come nomi e come persone. Tua madre ed io abbiamo abbozzato per un periodo, poi lei è sbottata, trattandola come meritava.

Ci siamo conosciute così, perché io ammiravo questo suo lato fiero, che somigliava al mio, ma io con il tempo lo avevo un poco messo “sotto il moggio”, lei invece no, se ne fregava degli altri, smascherava la malafede e non aveva paura di farlo in pubblico.
Solo dopo conobbi anche il lato devastante della sua psicosi, la sua complicata realtà interiore, l’unica sua realtà che contemplava la poesia, come seppi dopo.
Tua madre, quando apparteneva alla realtà degli altri, “placata” dalle medicine, non poteva scrivere, non sentiva quella musica dentro di sé che le permetteva di farlo. Non soffriva, era un tipo tranquillo e… morto. Morto interiormente, perché per farla stare in equilibrio recidevano il filo che la legava alla sua anima. Succede, sai?
Quando non era in sé – come direbbero ipocritamente gli altri – aveva una vita parallela complicata, che comprendeva il rinnegare una parte della sua famiglia. Suo padre, in particolare, anche se non ne so bene il perché. Sosteneva infatti che il suo vero padre fosse un personaggio pubblico, malinconico, i cui occhi bruni ricordavano effettivamente i suoi.
Salvava però la madre e quel fratello disabile, cerebroleso e diverso fin dalla nascita, che pure ammetteva averle sottratto l’amore della madre. Ma la colpa, per lei, era di sua madre, cosicché difendeva il fratello con amore selvaggio, sia in una vita che nell’altra, dicendo che se si fosse sposata, lo avrebbe portato via e tenuto con sé.

Tua madre amava incondizionatamente e a volte mi spaventava. Faceva lo stesso con me, che lo meritassi o no.
Dopo qualche mese ci perdemmo di vista e passò un po’ di tempo prima che per caso ci rivedessimo. Due “pance” in un laboratorio di analisi, tutte e due aspettavamo, io il mio Giovanni, lei… te.
Era così felice per te. Mi raccontò che eri la cosa più bella della sua vita, mi fece conoscere tuo padre, un uomo semplice, anche lui con qualche problema. Mi disse che finalmente si sentiva completa, che tu e lei vi sareste amate, che qualcuno l’avrebbe amata per come era.
È complessa, tua madre, e sapeva che l’amore con tuo padre era l’incontro di “due navi nella notte”, che si dividono al mattino.
Poi io ho partorito Giovanni, con notevole anticipo, lei invece ha continuato la gravidanza. Di tanto in tanto ci sentivamo, io potevo sfogarmi dei problemi di Gio., lei ascoltava, la sentivo a volte un po’ assente. Sapevo, perché me l’aveva detto, che aveva sospeso le medicine per paura di danneggiarti. Ho provato a convincerla a riprenderle, ma diceva che tu eri più importante di tutto. Speravo – pregavo – per un lieto fine per lei.
Ma il lieto fine non c’è stato. Ti ha partorito in stato psicotico e tu le sei stata strappata via. Non ti hanno messo sulla sua pancia, non ha potuto allattarti, né vederti. Ti hanno immediatamente dichiarata adottabile.
Ma prima… prima c’era stata quella telefonata. A me, alla sua amica, chiedendo aiuto, dicendo di andarla a prendere. Era tardi, e in un primo momento avevo pensato all’Intensiva, a un problema di Giovanni. Invece era lei, la voce agitata, piangente. «Vienimi a prendere – mi disse -, aiutami, ho dolori e sono scappata di casa, sono in un bar». Io mi spaventai, e anche mio marito. Avevo il telefono di casa e chiamai i tuoi nonni, credendo di fare la cosa giusta. Ora non lo so più.
Sarei riuscita a calmarla? Le cose sarebbero andate diversamente, se…? Lei aveva chiamato me, si fidava di me, e io mi sono sempre sentita, da allora, come se l’avessi tradita. Ma non sono stata io a strapparle la bambina dal grembo, a dichiararla adottabile, come se una persona con disabilità mentale fosse un’appestata, non potesse guarire e non avesse diritto a diventare mamma.

Ora so che è successo di nuovo, in Gran Bretagna, e mi soffermo a pensare se poi tua madre, che era riuscita a vederti e a scattarti la foto, ha vinto la sua battaglia perché tu potessi stare con lei, magari con una formula di affido. Se sì, magari avete potuto parlarne, e lei ricordare quei momenti orribili. Se no, spero che lei sia riscivolata nel suo mondo e magari, solo per lei, tu sia ancora la sua bambina. Perché la realtà – lei cosciente e sola e tu perduta per lei per sempre – è davvero troppo dura per me da immaginare.

Successe circa quindici anni fa, e qui in Italia, non in Gran Bretagna, in una società – almeno spero – più ingiusta di quella odierna.
Ti auguro un buon cammino di vita, quella vita che la mia amica ti ha donato con amore.

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