La sedia è il mezzo, la mente il motore, la libertà il fine

«Forse – scrive Simone Fanti, riflettendo sul significato stesso dell’essere una persona con disabilità in carrozzina – sarebbe meglio godersi il 100% di quello che la vita offre. Del resto, è l’unica che si ha. E non si può andare al supermercato e acquistarne un’altra diversa. O, forse, semplicemente uguale, ma con problemi differenti da affrontare»

Particolare di due persone in carrozzina«Da motociclista temevo il mondo della paraplegia prima di finirvi dentro – racconta Nicola Dutto, motociclista con disabilità, che su un mezzo appositamente preparato è arrivato addirittura terzo alla Baja California 1000, massacrante gara di enduro della durata di trenta ore no stop – ma ho deciso di vivere la mia nuova vita al meglio senza fingere. Pur con tutti i problemi dovuti alla lesione spinale, che, assicuro, vanno ben oltre il semplice non camminare, mi sento di affermare in tutta sincerità che vivo bene».
Le poche e trasparenti parole dell’uomo di Cuneo hanno scatenato una polemica tra chi la pensa come lui e chi dice invece che «la carrozzina è la mia personalissima croce» (sul tema si leggano anche Franco Bomprezzi, su queste stesse pagine, e il sottoscritto nel blog InVisibili del «Corriere della Sera.it»). In sostanza, si può vivere bene anche seduti su una sedia a rotelle?

La riflessione, certo, è personale. Ed è legata alle proprie limitazioni. Forse dirò la più semplice delle banalità, ma una grande discriminante è ciò che posso o non posso fare. Può essere un gradino a farmi sentire “costretto” su una carrozzina e un computer a farmi sentire seduto comodamente su una sedia. Avverto più forte la mia disabilità nel momento in cui un ostacolo si frappone tra me e il mio obiettivo. Ed è un sentimento tanto più fastidioso quanto più banale è l’ostacolo. Sì, un semplice gradino, per esempio, quello che saltavo a piè pari quando preparavo la stagione sciistica da bipede, quello a cui non facevo nemmeno attenzione quando entravo o uscivo da un negozio. Tanto invisibile che è una delle cause d’inciampo per chi cammina.
La disabilità non è solo l’assenza di movimento o il dovere andar in bagno con un catetere a intervalli prestabiliti o ancora il non sentire, nel mio caso, tre quarti del mio corpo (se dovessi avere dei problemi di salute sotto ai pettorali, non me ne accorgerei). La disabilità è il non poter fare. È l’emarginazione diretta e ingiusta, purtroppo, conseguenza dei limiti fisici, sensoriali o intellettivi. Se una persona non ha la possibilità di uscire da casa, sicuramente non riuscirà a coltivare amicizie, passioni… interessi.
Come fosse un fiore chiuso in una stanza buia, appassisce. Ma anche in quel caso non incolperei certo la sedia a rotelle, unico strumento per spostarsi di chi non ha le gambe, bensì la società disattenta. La sedia è il mezzo, la mente è il motore, la libertà è il fine. Liberi di realizzarsi, di essere se stessi. Nonostante la disabilità.

Facile parlare, dirà qualcuno. Anzi, me lo dico da solo. La mia lesione, seppur piuttosto alta, non è tragica. Eppure più volte mi sono rintanato in me stesso, nell’angolino della commiserazione, più volte mi sono sentito costretto sulla sedia, come se mille cinture di sicurezza m’imbrigliassero a quella “maledetta” quattro ruote per sedici ore al giorno. Ricordo benissimo il momento in cui steso in un letto mi fu detto brutalmente che non sarei più tornato a camminare. Allora fu una tragedia, oggi penso che fu un bene. Mi permise di reagire. E di tornare a lottare nel più breve tempo possibile.
E oggi sto con Nicola Dutto. La mia sedia non mi fa vivere meno bene: sto lottando per realizzare i sogni che avevo da ragazzo. Guadagnandomi ogni centimetro del percorso verso un traguardo che ancora non vedo.
Oggi, alla soglia dei quarant’anni, ho ricominciato da zero. Il giornale per cui lavoravo ha cambiato editore e ora sono temporaneamente al sito della «Gazzetta dello Sport». Mai avrei pensato di occuparmi di sport. Se supererò la prova o fallirò, certo non dipenderà dall’ausilio che “indosso” per vivere.

Troppe volte si attribuisce la colpa alla disabilità o ci si nasconde dietro alle proprie difficoltà come se questa fosse uno scudo dalle normali avversità della vita. «Dopo avere scalato una grande collina – diceva Nelson Mandela – si comprende che vi sono molte più colline da scalare». Certo, per alcuni la salita sembra più lieve, ma chi conosce realmente le vite degli altri? Ciò che all’apparenza sembra perfetto, magari non lo è. Come novelli Faust si scende a strazianti compromessi con se stessi.
O forse sarebbe meglio godersi il 100% di quello che la vita offre. Del resto, è l’unica che si ha. E non si può andare al supermercato e acquistarne un’altra diversa. O, forse, semplicemente uguale, ma con problemi differenti da affrontare.

Testo già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Io in carrozzina, così diverso e così uguale a chi sta in piedi”). Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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