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Persone con disabilità che sopravvissero all’Olocausto

I sette Ovitz

I sette componenti della famiglia Ovitz, che sopravvissero nel campo di sterminio di Auschwitz

Quando scesero dal treno della morte, ad Auschwitz, uno di loro cominciò a distribuire biglietti da visita autografati. Erano i Lilliput e da più di dieci anni giravano per tante nazioni dell’Est Europa, loro che venivano dalla Romania, a cantare e ballare.
Il nome spiegava tutto: cinque donne e due uomini, tutti nani e tutti della stessa famiglia, gli Ovitz. Fratelli e sorelle. Dieci in tutto, perché c’erano anche altri tre con altezza nella media. Fu questo a evitare loro quei camini sempre fumanti che avevano visto scendendo dal treno. L’incontro con l’“Angelo della Morte”, il dottor Mengele, fu paradossalmente la loro salvezza. Fra torture indicibili e dolori immensi.
L’Olocausto, che è nato con i disabili [se ne legga anche nel nostro giornale, N.d.R.], si rovescia per loro attraverso la cattiveria e la follia di un medico assassino e incapace.

Gli Ovitz erano ebrei originari della Romania. Shimson Eizik, oltre a essere un rabbino e un musicista in quei primi vent’anni del secolo scorso, aveva anche messo al mondo dieci figli in due matrimoni. Sette di loro, come lui, erano con pseudoacondroplasia, che è una delle forme più comuni di nanismo con l’acondroplasia. La loro storia sembra la sceneggiatura di un film e invece è tremendamente vera.
Negli Anni Trenta e all’inizio dei Quaranta, gli Ovitz, dopo la prematura morte del padre e una promessa voluta dalla madre di otto di loro, la seconda moglie, mentre stava morendo («Non vi dividerete mai, vi aiuterete sempre stando vicini, solo così potrete vivere»), erano una compagnia affermata di attori, ballerini, musicisti e cantanti. Tanto che non si preoccupavano molto delle leggi che colpivano gli ebrei in diverse nazioni d’Europa, anche perché avevano ottenuto di non avere segnalata la loro origine ebrea sui fogli che presentavano alle frontiere e nei vari Paesi. Furono presi, però, mentre si esibivano in Ungheria, invasa dai tedeschi.

Arrivarono ad Auschwitz di notte, nel maggio del ’44. Erano in 3.500. In poche ore la maggior parte vennero uccisi. Rimasero in 400. Fra questi gli Ovitz. Quando li vide sul treno, un ufficiale nazista urlò: «Chiamate il medico!».  Andarono a svegliare Mengele. Normalmente non l’avrebbero fatto, fosse stato qualche gemello, o qualche persona di bassa o alta statura, o un ermafrodita. Insomma, le passioni perverse del dottore. Ma questa volta era diverso: sette e tutti della stessa famiglia. Fecero bene.
Mengele cominciò a interrogarli. Quando finì gli brillavano gli occhi: «Ho lavoro per i prossimi vent’anni». Lo ricordava bene Perla, la più giovane con i suoi 23 anni, alla quale si deve buona parte della memoria sulla loro storia, dalla quale sono stati tratti libri e documentari. Quando arrivò si chiese cosa fossero quei camini: «Forse ci faranno il pane». La illuminò un ebreo con una giacca a righe. Non lo scordò mai: «Ogni fiamma sembrava un essere umano».
E c’era quel medico. Salvi per lui. Per la sua malvagità. Li voleva vivi per i suoi esperimenti. Loro sette e altri quindici membri della famiglia sopravvissero per quello. Diventarono fra i suoi “preferiti”. Fu permesso di portare i loro vestiti, avere dei vasini, tolti ai bimbi ammazzati, per i loro bisogni; invece delle latrine comuni, avevano una ciotola per lavarsi. Vivevano sempre in una baracca e il cibo era scarso, una zuppa di pane, ma a confronto degli altri era il “Grand Hotel”. Il cambio fu tremendo: esperimenti e torture, prelievi infiniti di sangue («Quando svenivamo fra vomito e schizzi di sangue, si fermava, appena svegli riprendeva») e midollo, continui raggi X, acqua bollente e poi gelata nelle orecchie, denti sani e capelli strappati, sostanze iniettate nell’utero delle donne.

Poi il terrore. Un giorno Mengele fece uccidere un papà e un figlio acondroplasici, arrivati al campo tre mesi dopo di loro. Voleva esporre le loro ossa in un museo di Berlino. Ordinò di bollire i loro corpi sinché carne e ossa non si fossero separate. Un altro disse agli Ovitz che sarebbero andati con lui. Fece truccare le donne. Pensarono di dover morire. Invece li espose nudi in un convegno di alti ufficiali nazisti. Una mostra per nascondere risultati che un cialtrone e ciarlatano come lui mai avrebbe potuto avere. Per lui cantarono e si esibirono, cercando di circuirlo anche in questa maniera. Si mostravano sorridenti. Lui, prima o dopo le torture, ricambiava.

Fu così che riuscirono, incredibilmente, a vivere sette, lunghissimi mesi. Uno dei fratelli non di bassa statura fu l’unico a morire, ucciso mentre tentava di scappare. Quando i russi si stavano avvicinando, Mengele scappò. Li trovarono fra i pochi sopravvissuti, in mezzo all’orrore. Erano ancora tutti uniti. Ognuno, ogni maledetto giorno, aveva nella mente quella frase di mamma, sul letto, prima di morire: «State insieme. Sempre».
Gli Ovitz tornarono al loro villaggio in Transilvania, emigrando in Israele nel ’49. Si spensero lì, l’ultima fu Perla nel 2001. Mengele non fu mai catturato per i suoi crimini. Morì, stroncato da un ictus, nel ’79, in America del Sud, dopo un bagno nell’Atlantico.

Testo già apparso – con il titolo “Sette nani ad Auschwitz: come gli Ovitz sopravvissero all’Olocausto” – in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it». Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.

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