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La “sordità” di chi non sa ascoltare

Realizzazione grafica con testa di profilo che ascolta, rivolta verso il soleTravolto dalle notizie di cronaca, ho trascurato un impegno, quello cioè di ragionare attorno a un incontro speciale, costruito con sapienza da Martina Gerosa [se ne legga un’ampia, recente intervista nel nostro giornale, N.d.R.], a Milano, nel gennaio scorso, dal titolo che era tutto un programma: Sentiamoci! Riflessioni sulla disabilità uditiva.
Una bella sede, l’Auditorium San Vittore, dove ha sede la Cooperativa La Cordata, un programma denso e coinvolgente, aperto dal film Sento l’aria di Mirco Locatelli. Un pubblico composito, nel quale non erano certo prevalenti i sordi, e comunque sarebbe stato difficile distinguere chi sentiva con le proprie orecchie, chi con l’ausilio degli impianti cocleari, chi seguendo il labiale, chi la sottotitolazione, chi la lingua dei segni. Ognuno poteva scegliere e sentirsi incluso, come è giusto, o meglio, come sarebbe giusto sempre.

Mi è tornato alla mente quello splendido incontro, cui ho avuto l’onore di partecipare e di dire la mia, assieme ad altre persone assai preparate, leggendo l’ottimo testo di Claudio Arrigoni, nel blog InVisibili del «Corriere della Sera.it», dedicato a Derrick Coleman, il primo giocatore di football americano riuscito ad arrivare fino al mitico Superbowl, la finale stellare diffusa in tutto il mondo, pur essendo sordo, in uno sport nel quale la comunicazione verbale, spesso urlata, è fondamentale per chiamare gli schemi di gioco.
Una storia di normalità, in un mondo in cui questa risulta comunque un’impresa enorme, resa possibile dalla tenacia di un campione, ma anche dall’ottima relazione con il contesto della propria squadra, e dall’uso di tecnologie compensative in grado di ridurre il deficit uditivo, che pure rimane e pesa.
Derrick, per la cronaca, ha pure vinto il Superbowl con i suoi Seattle Seahawks. Sarebbe stato un argomento in più, nel nostro incontro di gennaio a Milano, ma non avrebbe aggiunto molto alla sostanza di un ragionamento “a più voci”, che partiva da esperienze di vita vera, con storie di generazioni diverse, ragazzi, adulti, professionisti, artisti, aspiranti genitori. Un dialogo importante che mi ha aiutato a conoscere meglio un punto di osservazione della realtà che naturalmente conosco meno, e che mi incuriosisce non poco.

Rispetto alla sordità, infatti, continuano a sopravvivere gli stereotipi peggiori, basati sul pregiudizio. Innanzitutto si tratta di una disabilità non evidente come tante altre, e che dunque spesso comporta un impatto ruvido quando si tratta di stabilire un qualsiasi tipo di dialogo: allo sportello di un ufficio pubblico, in una coda, su un mezzo di trasporto, in un ambiente affollato e rumoroso, in un cinema o in un teatro, in un palazzetto dello sport o in uno stadio.
I sordi hanno scelto storicamente la strada dell’identità, della comunità, del gruppo autosufficiente, grazie all’abitudine – nel passato ma anche oggi – di ricorrere all’uso della lingua dei segni che però ha comportato la conseguenza, quasi inevitabile, di un isolamento rispetto alla generalità delle persone, che non conoscono tale lingua e non hanno, salvo eccezioni, alcun obbligo di apprenderla.
La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità spiega correttamente come sia doveroso utilizzare qualsiasi strumento per consentire la comunicazione libera delle persone sorde. E fra questi strumenti c’è sicuramente anche la lingua dei segni, diversa, per altro, da Paese a Paese.
Lo sviluppo tecnologico ha favorito negli ultimi decenni la crescita di soluzioni basate sulle protesi acustiche, sugli impianti cocleari, ma anche la diffusione della sottotitolazione, delle applicazioni per smartphone, l’uso di internet.
È paradossale come, in realtà, il mondo di chi sente benissimo sia invece totalmente sordo rispetto alla realtà dei non udenti. È come se ci passassero accanto senza sfiorarci. E invece dalle loro vite, dai desideri normali e spesso complicati dal deficit, dalle abilità sviluppate nel lavoro, dalle realtà di famiglie splendide, dalla capacità di autoironia e di ironia, si apprende una lezione di umanità concreta che arricchisce e ci riguarda, ci stimola, ci coinvolge, ci interroga.
È il paradosso della società della comunicazione: solo il silenzio, a volte, ci permette di ascoltare davvero.

Direttore responsabile di «Superando.it».

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