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Lettera a una professoressa

Di fronte un'assistente, di spalle un ragazzo con disabilitàCara professoressa, mi rivolgo a te, in modo un po’ informale, per comunicarti i tanti pensieri che ho raccolto in questi pochi mesi dall’inizio dell’anno scolastico, che è il primo di un percorso importante per tutti i ragazzi che hanno scelto l’ indirizzo dei loro studi.
Tra di loro c’è anche mio figlio Marco ed è per questo che ti chiedo qualche minuto del tuo tempo, sia in quanto coordinatrice di classe, ma soprattutto come donna, insegnante e madre che ritengo particolarmente sensibile alle situazioni, diciamo pure, un po’ “speciali”.

Ho seguito con attenzione ogni giorno questo momento delicato in cui si stabilisce un nuovo indirizzo di vita, nuove amicizie, nuovi insegnanti e nuovi contesti. Marco ha dimostrato grande entusiasmo e voglia di imparare cose nuove, fare nuove amicizie e crescere con nuovi interessi, sebbene riconosca ancora in lui molti atteggiamenti “da giocherellone”, tendente ad esagerare e a rendersi qualche volta seccante. Ma anche questo fa parte dell’“essere normali”. È normale, infatti, che i ragazzi abbiano l’esuberanza degli adolescenti, la voglia di ridere e di sottolineare con ironia le differenze, anche se questo a volte fa soffrire.
Marco sin da piccolo comunicava guardandomi le labbra, osservando tutto con un’attenzione non comune a un bimbo della sua età. Ma qualcosa non era come doveva essere, solo che mi sfuggiva cosa! Il giorno del suo primo compleanno  abbiamo scoperto che Marco era completamente sordo.
Cosa volesse dire essere sordo non lo avevo afferrato in un primo momento, eravamo assolutamente lontani dal capire come ci si comporta in questi casi, né tanto meno in famiglia o tra conoscenti si era mai affrontato un problema simile. E così, dopo i primi momenti di sconforto, ci siamo dati da fare per documentarci sul problema e nel giro di pochi giorni eravamo in un noto centro per le sordità infantili a Padova, dove appunto Marco continua a essere seguito.

La sordità non si vede, ma ha gravi conseguenze nell’àmbito comunicativo. Chi non sente non parlerà perché la parola è un suono e chi non sente non sa che esiste un suono. Comunicherà con i gesti, non c’è un farmaco che “guarisce” dalla sordità.
Ma la sordità non è neanche una malattia, perché non peggiora la condizione fisica, non porta alla morte, non crea problemi di salute. Si cresce bene, solo che non si sente nulla di tutto ciò che ci circonda. Così, quando tutti i bambini vivevano in modo partecipe la realtà intorno a loro, la rassicurante voce dei familiari, le giostre, gli altri bimbi, il vento e la pioggia; quando tutti i bambini all’età di due anni sapevano dire distintamente mamma e papà, lui si rivolgeva a noi semplicemente con un sorriso.
A tre anni i medici di Padova decisero che era possibile fare uscire Marco dall’isolamento, inserendo nel suo cranio e nel suo orecchio un impianto cocleare. Erano ancora in via sperimentale, non c’erano garanzie. C’era da sottoporsi a un intervento chirurgico lungo e invasivo e ad anni di logopedia intensiva, per far sì che si capisse cosa fossero i suoni, con cui in seguito articolare le parole. Quindi, quando tutti i bambini sapevano già recitare le poesie e cantare canzoncine, lui viveva ancora nel silenzio.

Ma fare un impianto cocleare non è stata una scelta facile, qualcuno ci disse che era l’unica via per consentire a mio figlio una vita “normale”; qualche mamma, invece, mi scrisse cose del genere: «La madre che sottopone un figlio a un impianto cocleare è ingenua della sofferenza del figlio. È un amore falso da parte della mamma per un figlio! Il figlio non è scemo, ma sordo e si renderà conto durante la crescita di non essere stato lui a scegliere e facilmente odierà i genitori».
Nonostante tutto abbiamo sottoposto Marco all’impianto e pian piano ha cominciato a rendersi conto dei rumori che lo circondano. Ore e ore di sedute di logopedia gli hanno insegnato a parlare nel modo più naturale possibile, anche se di “naturale” c’è ben poco.
Certo, ci sono dei limiti, di notte lo deve togliere, spesso si scaricano le batterie, non può tenerlo quando fa la doccia o va al mare o in piscina, ma è uno strumento utile per sentire. Come sente – cioè quale sia la qualità del suono -, non lo sapremo mai perché lui non ha un termine di paragone, cioè non può dire: «Si sente meglio con l’udito normale!». Penso che sia come il suono del citofono e in più è come sentire con un solo lato. Ma lui ci si è adattato subito e non si è mai lamentato del suo stato.

A sei anni Marco era pronto per la scuola, il suo linguaggio era ancora molto povero (per lui imparare le parole è come inserire dei dati al computer, lui non li “capta” automaticamente dall’ambiente che lo circonda, bisogna guardarlo in faccia e dirgliele in modo scandito), ma è stato sempre seguito da pedagogisti ed équipe di esperti, i quali hanno sempre ritenuto che dal punto di vista cognitivo e intellettivo Marco non fosse indietro rispetto alla norma.
Ed ora è in prima superiore, con un bagaglio di vissuto fortemente caratterizzato dalla volontà di essere come tutti e di vivere con disinvoltura gli anni dell’adolescenza.

Mi rivolgo a te, cara professoressa, perché tu possa spiegare questo vissuto ai compagni di classe di Marco, mostrare loro il video che permetta loro di vedere gli aspetti tecnici del suo modo di sentire, comprendere che le disabilità sono molteplici è che il valore dell’integrazione è una ricchezza per tutti.
Ho saputo che se viene un po’ deriso per il suo modo strano di parlare, lui si giustifica dicendo che da piccolo lui non parlava affatto; il suo non sentire lo ha naturalmente portato a rivolgersi agli altri cercando un contatto, è così che gli esperti mi spiegano spesso la sua irrequietezza.
Per tutti i ragazzi, dico che i risultati scolastici sono tanto più positivi quanto più si riesce a crescere armoniosamente nel gruppo, e per questo è importante conoscere e comprendere il valore aggiunto in ciascuno di noi.
E grazie per la disponibilità e la sensibilità che tu e gli altri docenti dimostrate ogni giorno.

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