C’è chi dice che in tempi di crisi sia confortante pensare a quando si stava meglio. Altri invece affermano essere assai triste abbandonarsi a questi pensieri e che non vi sia nulla di più amaro che il rimembrar il bel tempo andato.
Noi, da tanti anni famiglie con disabilità, vorremmo solo ricordare come stavamo una ventina d’anni fa, quando le nostre ragazze e i nostri ragazzi erano piccoli davvero, perché un po’ piccoli sono poi sempre rimasti, almeno nel nostro cuore. Peggio? Meglio? Probabilmente meglio, forse molto meglio e per diversi buoni motivi.
Innanzitutto eravamo – o ci illudevamo di essere – la parte più avanzata della società. Portatori di un’idea di solidarietà e di condivisione di valori etici, scorgevamo positività ove altri vedevano solo disperazione e dolore.
Eravamo ottimisti, malgrado tutto. Credevamo nell’Integrazione, nell’Inclusione, nella Riabilitazione, nella Sanità, nello Stato, nell’Autonomia Locale, nella Società Civile, persino nella Legge e in molte altre belle e fantasiose cose.
E oggi? Oggi continuiamo a credere, malgrado tutto e tutti, nelle stesse bellissime cose. Malgrado la corruzione, la mafia, la malapolitica, i cattivi politici, i ladri di Stato e i presidenti delle Agenzie, gli sfruttatori delle famiglie disperate, la Legge di Stabilità, l’ISEE con le malvagità connesse, i talk-show televisivi, il tagliar la pur magra torta in fette uguali, quando i commensali hanno non appetiti, ma necessità diverse.
Come facciamo? Siamo famiglie con disabilità: abbiamo disabilità sensoriali (non vediamo i cattivi esempi; non udiamo i soliti discorsi; non apprezziamo al tatto chi manca di tatto e di buon gusto nei nostri confronti), motorie (non ce ne andiamo da questo Paese plurialluvionato e plurifranato), relazionali (non abbiamo relazioni politicamente significative).
Ricordiamo un po’ le tre proverbiali scimmiette*…
*“Le tre scimmie sagge” che danno corpo al noto principio proverbiale del “non vedere il male, non sentire il male, non parlare del male”, cui si riferisce Giorgio Genta, derivano originariamente da un motto illustrato giapponese. Quelle qui sopra raffigurate – che si tappano con le mani rispettivamente le orecchie, la bocca e gli occhi – sono rappresentate in una cornice di legno nel santuario giapponese di Toshogu a Nikko.