I limiti e i rischi della “scuola a casa”

Nata negli Stati Uniti per i bimbi in tenera età, l’“homeschooling”, ossia la “scuola a casa”, sembra diffondersi anche all’età dell’obbligo scolastico e pure in alcuni Paesi europei. «Ma la scuola – scrive tra l’altro Alfio Desogus – è un permanente laboratorio di sperimentazione, da cui sorgono nuovi modi di fare socialità e istruzione e la cui ricchezza non può essere certo compensata e sostituita da alcun tipo di scuola familiare»

Ragazza al tavolo di studio, a fianco di una donna adultaOriginariamente nata per i bimbi in tenera età, ora l’homeschooling, ossia la “scuola a casa”, si estende anche all’età dell’obbligo scolastico. Partita dagli Stati Uniti, dove ha interessato ben 40.000 casi, è un’esperienza che va diffondendosi anche in Europa, come in Inghilterra, Germania e Francia. Con quasi 2.000 esperienze, poi, è presente anche in Cina. In Italia ne abbiamo ancora pochi esempi, per lo più a Milano e a Roma, ma già si preannunciano alcune decine di altri casi in diverse città italiane.
Come tutte le nuove esperienze sul tema scuola, anche su questo si è scatenata la discussione, dando luogo a due schieramenti che si contrappongono, denunciando da una parte disarmanti fallimenti o enfatizzando dall’altra i successi incoraggianti e risolutivi di tante preoccupazioni.
A questo proposito, riportiamo la testimonianza di un genitore di origini romane, ma con famiglia negli Stati Uniti, che nel raccontare l’esperienza del proprio figlio – oggi ventiquattrenne – ha amaramente sottolineato l’esito lacunoso del’esperienza, sintetizzandone in tal modo i risultati: istruzione approfondita e puntuale, accompagnata da linguaggio ed espressione appropriati, che contrasta con una personalità incerta, ombrosa e con scarsa capacità di comunicazione colloquiale, oltreché con insoddisfacenti capacità di relazione amicale o interpersonale.
Il caso, citato in una trasmissione radiofonica, riguarda una famiglia benestante con genitori di elevata cultura, impegnati in un lavoro liberoprofessionale e con un figlio che ha oramai completato il corso degli studi.

Ebbene, nel circoscrivere l’analisi e la riflessione all’età dell’obbligo scolastico, per una prima valutazione occorre innanzitutto esaminare le ragioni e le motivazioni che orientano le famiglie verso l’esperienza della scuola a casa, per comprenderne meglio le positività e le negatività.
Nel merito, appaiono certamente significative le argomentazioni pubblicate dal sito web «Controscuola.it», ove vengono sottolineate «motivazioni di natura religiosa, linguistica, disabilità, mancato soddisfacimento delle necessità del singolo, episodi frequenti di bullismo e violenza o rifiuto genitoriale a delegare ad altri il compito fondamentale di educare i propri figli».
A questo punto – pur non intendendo assumere approcci ideologici, come ad esempio quello riguardante la preminenza della scuola pubblica rispetto a quella privata, della quale la specifica esperienza di scuola familiare è allo stato attuale un piccolo segmento – è importante porre al centro alcune riflessioni che possono valere sia per la scuola pubblica che per quella privata.
Secondo il sito citato, l’assunto iniziale per la scelta è la distinzione/separazione tra scuola (edificio) e istruzione. Innanzitutto, è importante ribadire sul punto il ruolo fondante della scuola come luogo fisico di accoglienza, di socializzazione, di contaminazione fra culture, religioni, etnie e lingue, di costruzione di una prima identità di gruppo e individuale, di regolazione compensativa fra comportamenti e stili di vita, di comunicazione e relazione e, infine, di struttura dove si realizzano le pari dignità e le pari opportunità o, in altri termini, le condizioni iniziali di parità e uguaglianza.
Sono a ben vedere i fondamenti minimali e ineludibili dello stato contemporaneo basato su diritti e doveri, ovvero gli stessi termini fondativi del contratto sociale basato sulla giustizia e sull’uguaglianza, quale seria premessa anche per chi sostiene l’opzione  meritocratica.

In secondo luogo – accanto al carattere fondativo dell’istituzione universale della scuola -, appare qualificante e determinante il tema dell’attività didattica svolta nelle classi. Non sfugge infatti che quest’ultima sia in continuo adattamento e che ciò porti soprattutto a mettere in moto i processi dinamici di collaborazione didattica fra i compagni di classe.
I mutamenti di situazione che si verificano in una classe, generati dal comportamento e dalla presenza attiva dei componenti di essa, sono fonte di continue calibrature comportamentali e di modulazioni comunicative che favoriscono e caratterizzano le relazioni interpersonali. Questa ricchezza e queste opportunità dinamiche, fornite dall’essere parte di una classe, vengono ovviamente a mancare, nel caso della scuola familiare, dando luogo proprio ai possibili risultati denunciati dal genitore prima citato.

Le grandi battaglie culturali contro l’istituzionalizzazione totale, condotte in questi decenni in Italia, partivano proprio da considerazioni sui rischi della separatezza, per superare l’istituzione totale e porre il tema dell’integrazione scolastica come premessa e sostanza dell’inclusione sociale.
Rinunciare al vissuto personale in una classe, nell’opinione più avveduta, significa non dare tutte le opportunità utili per i ragazzi con disabilità, rinunciando alle occasioni di relazione e di confronto per maturare esperienze e rapporti interpersonali.
Tuttavia, non bisogna sottacere che le condizioni preliminari dell’essere componente di una classe non assicurano automaticamente un buon processo d’istruzione, perché ad influire sull’apprendimento subentrano una serie di meccanismi, sia dal punto di vista della didattica che – fatto decisivo – del ruolo del docente.
Su questi ultimi fattori del “fare scuola” è pertanto necessaria una riflessione rigorosa, finalizzata alla predisposizione delle iniziative e degli interventi che consentano di affrontare il ruolo e la funzione del docente e complessivamente della scuola.

Nel fare scuola, per altro, intervengono anche aspetti logistici e infrastrutturali. Intervengono le continue innovazioni nell’economia e nella società che richiedono la formazione continua del docente e persino la modulazione continua dell’organizzazione scolastica. Si pensi, ad esempio, alle conseguenze della diffusione e dell’evoluzione delle tecnologie. Si pensi al ruolo dei dispositivi didattici informatici e alle opportunità che sono oggi a disposizione per le attività didattiche. Si pensi alle modifiche dei ruoli sociali o professionali, culturali e relazionali, introdotte o indotte dalle tecnologie, per comprendere che la scuola è un permanente laboratorio di sperimentazione e sorgente di nuovi modi di fare socialità e istruzione.
Ecco. Tutta questa ricchezza e diversità, come possono essere compensate e sostituite dalla scuola familiare? Può darsi che essa riesca a fornire un’ottima istruzione, che riesca a praticare un approccio ottimale con la tecnologia, ma il valore derivante dalla sperimentazione e dalla ricerca – ove questa si verificasse – rimarrebbe confinato a quell’esperienza individuale e non si trasformerebbe in esperienza diffusa o patrimonio per altri docenti o altre scuole.
Si pone oggi, quindi, in termini nuovi, non già l’istruzione e la formazione rivolta al singolo, ma, al contrario, l’esigenza di sperimentare e sviluppare forme nuove di scuole o classi aperte, cioè l’esigenza di superare la tradizionale classe fisicamente delimitata dai muri, per aprire – proprio attraverso il concorso delle tecnologie – alle attività e alla didattica di altre classi.
Siamo in un mondo globale e quindi bisogna ricorrere all’ampliamento degli scenari culturali per apprendere le nuove modalità nell’attivare e stabilire le relazioni che nella società contemporanea diventano sempre più vaste e larghe.

C’è però un ulteriore aspetto che necessita di un approfondimento. La scuola familiare tende verso l’elitarismo ossia porta ad enfatizzare la singola persona, se non addirittura l’individuo, ridimensionando pertanto il campo della società. Ma addurre come ragioni per la scelta della scuola familiare sia la religione che la lingua – così come fa «Controscuola.it» -, appare preoccupante perché si scivola nella direzione delle differenziazioni etniche ossia religiose e culturali. Con simili motivazioni, si entra in una “zona grigia”, ovvero in un’anticamera che può facilmente condurre anche al razzismo, al fondamentalismo e al corporativismo.
Perché nella nostra società di uguali per i diritti non possono convivere diverse religioni o diverse lingue nella stessa classe scolastica? Può o no esistere una lingua comune accanto all’esistenza di altre lingue? Si voglia o no, oggi siamo in presenza di una società multietnica e multiculturale, con cui si devono fare i conti in modo positivo sia in termini di diritti che di tolleranza e convivenza. Negare infatti i grandi mutamenti mondiali non produce cittadinanza e tanto meno diritti umani, ma solo “culture” che preludono a una società fondata con l’uso della forza sui propri concittadini.
È necessario, dunque, prendere atto coraggiosamente delle ricadute generate dai processi di mondializzazione, per operare positivamente al superamento di fenomeni come il bullismo nelle scuole, come l’inaccettabile discriminazione fra uomini, e come la diffusa emarginazione sociale che naturalmente ricade prima di tutto sui soggetti deboli e “diversi”.

Presidente della FISH Sardegna (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap).

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