Donne con disabilità e servizi sanitari: quanti ostacoli!

Presentiamo una nuova intervista a una donna con disabilità, che racconta tutte le sue difficoltà ad accedere ai vari servizi sanitari e in particolare ad alcuni più specifici di altri. Anche in questo caso la testimonianza è stata raccolta dal Coordinamento del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), che aveva già curato, a suo tempo, un’interessante indagine sull’accessibilità dei servizi di ginecologia e ostetricia

Donna in carrozzina fotografata di spalleContinuiamo a presentare le testimonianze provenienti da alcune donne con disabilità, sull’accessibilità dei servizi sanitari, contributi, questi, curati dal Coordinamento del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), così come l’indagine intitolata Accessibilità dei servizi di ginecologia e ostetricia alle donne con disabilità, da noi ampiamente presentata qualche tempo fa.
«Ringraziamo di cuore queste donne – scrivono dal Coordinamento del Gruppo Donne UILDM – per avere accettato di condividere la loro esperienza con noi, e segnaliamo che, per ragioni di riservatezza, tutti i loro nomi sono stati sostituiti da pseudonimi scelti dalle stesse intervistate. Non aggiungiamo altro. Ogni donna, a suo modo, ha espresso il proprio punto di vista partendo dal proprio vissuto. Si tratta solo di
ascoltare la loro voce».
Dopo quindi la testimonianza di “Stella”, è la volta di quella di “Fiona”, non prima di ricordare ancora che resta aperta, fino al 15 dicembre, la possibilità di collaborare alla raccolta di testimonianze, scrivendo semplicemente a: gruppodonne@uildm.it.

Gentilissima Fiona, puoi raccontare qual è la tua età, il tuo titolo di studio, che tipo di lavoro svolgi, e la tua disabilità?
«Sono Fiona, sono italiana di nascita e di residenza, ho 44 anni e il diploma di maturità commerciale. Nel ’92, poi, con un master biennale, mi sono specializzata come quadro tecnico per l’amministrazione e la direzione aziendale. Lavoro part-time da ventidue anni come impiegata presso l’ufficio spedizioni e insieme a tre colleghi dirigiamo il reparto di quindici operai del magazzino di spedizioni merce di una grande industria alimentare locale.
Soffro di distrofia tipo FSHD (distrofia muscolare facio-scapolo-omerale) da quando avevo 11 anni e ho una disabilità fisica grave. Attualmente uso la carrozzina elettrica, riesco a lavarmi e vestirmi in parte, ma per il resto ho bisogno di assistenza. Posso pettinarmi, truccarmi, mangiare, scrivere, leggere e usare il computer normalmente e in autonomia. Sono capace inoltre di cucinare, dipingere, guidare l’automobile con la patente speciale. Vado a fare la spesa e anche altre commissioni di vario genere quando gli uffici sono accessibili, altrimenti mi organizzo al telefono o al domicilio o con internet».

Puoi dire qual è la tua Regione di residenza, se vivi da sola o con altre persone, qual è il tuo livello di autonomia nella tua abitazione e fuori casa?
«Abito in Emilia Romagna, vivo da sola al primo piano con ascensore. Al piano di sotto c’è l’appartamento di mio padre che mi offre assistenza soprattutto alla sera per andare a letto. Al mattino, invece, usufruisco sia degli operatori socio-assistenziali del Comune, sia di una badante/colf per due ore e sei giorni alla settimana, per l’alzata, l’igiene, le pulizie e il rassetto della casa, oltreché per alcune terapie fisiche e per la preparazione di parte dei pasti.
Ho mantenuto, come dicevo, una certa autonomia guidando la mia automobile, lavorando, cucinando e dipingendo, adattando il mio appartamento, e da tre anni ho anche una vita sentimentale appagante con il mio compagno. Per andare al lavoro o espletare incombenze varie, salgo e scendo in completa autonomia con la mia carrozzina elettrica sulla mia auto adattata, guido e vado anche in piscina a fare qualche vasca di allenamento perché faccio parte di un gruppo di pazienti che si stanno sottoponendo a una terapia sperimentale».

Sei stata invitata a partecipare a qualche campagna di prevenzione sanitaria, come ad esempio lo screening del carcinoma del collo dell’utero, che riguarda tutte le donne di età compresa fra i 25 e i 64 anni?
«Sì, da molti anni partecipo alla campagna per la prevenzione del carcinoma del collo dell’utero perché già a 25 anni ho avuto un piccolo intervento per “bruciare” le cellule danneggiate dall’HPV [papilloma virus umano, N.d.R.], e da allora ho fatto controlli dapprima più frequenti, ma sempre con esito negativo, e ora partecipo solo alla campagna. Inoltre, siccome mia madre è morta di recente a causa di un tumore al seno, ormai da quattro anni eseguo annualmente anche la mammografia e l’ecografia al seno con visita, per prevenzione».

Il tuo presidio sanitario di riferimento è raggiungibile attraverso mezzi pubblici accessibili? E nelle vicinanze di esso ci sono parcheggi riservati alle persone con disabilità?
«Non ci sono mezzi pubblici accessibili, ma abito vicino al presidio sanitario e, se fa bel tempo, vado con la carrozzina elettrica, oppure con la mia automobile adattata. Ci sono alcuni parcheggi riservati».

Ti è mai capitato di recarti in un ospedale o in un ambulatorio, e di non riuscire a raggiungere il luogo per la presenza di ostacoli lungo il percorso? Oppure di non riuscire a entrare nell’ambulatorio perché inaccessibile?
«Nel mio ospedale, il Centro Unico di Prenotazione (CUP) e il Consultorio sono in uno stabile di recente edificazione, con un porticato a colonne infinito, ma che ruba spazio alla costruzione e agli ambulatori interni. Esso ha percorsi esterni accessibili con rampe, ma ha tutte le entrate a vetro strette con due porte a battente, una di fronte all’altra e distanti tra loro circa un metro, con la molla durissima da aprire; ci vogliono quindi due persone per tenerle aperte entrambe in modo tale che io possa entrare la carrozzina. Poi, una volta dentro al Consultorio, la sala d’aspetto è minima e io con la carrozzina sono spesso d’intralcio a chi passa. Infine, quando entro nell’Ambulatorio di Ginecologia, devo sempre far portare fuori le sedie perché non ho spazio di manovra per arrivare alla scrivania del medico o al lettino della visita».

Ti è mai capitato di dover svolgere qualcuno di questi esami/visite: visita ginecologica, PAP test, mammografia, ecografia pelvica, densitometria ossea, prove urodinamiche, colposcopia, ecografia mammaria, isteroscopia?
«Sì, tutte tranne le prove urodinamiche e l’isteroscopia».

E in relazione a queste visite, puoi illustrare come si è svolta la comunicazione col medico?
«Non sempre il medico mi comunica quello che sta per fare, specialmente in un ospedale pubblico dove c’è fretta, e non c’è la necessità di instaurare un legame di clientela con il malato, come nel privato. D’altro canto, sapendo anche dei tempi ristretti a mia disposizione, mi informo personalmente prima sul tipo di esame che sto per fare, leggendo o cercando spiegazioni in internet. Quindi, durante la visita, partecipo attivamente, esponendo le mie problematiche e facendo domande o riflessioni a voce alta in modo da sollecitare il medico. Così, in molti casi, quando il medico si rende conto che sono preparata e capace di intendere, allora si rapporta direttamente con me, informandomi sempre sugli esiti della visita, o degli esami se disponibili subito, o di come dovrò fare per ritirarli».

Nella fase preparatoria alla visita, hai potuto usufruire di uno spogliatoio accessibile? E in generale, ti sei sentita rispettata nella tua riservatezza?
«Nel mio ospedale non ho avuto né uno spogliatoio privato, né la privacy perché non c’è spazio per poter stare almeno dietro un esile paravento. Nel Policlinico della Provincia, invece, che è più grande, trovo più preparazione e spazi più ampi e riservati».

Per quelle visite che comportano lo spostamento su un apposito lettino, ti è stato chiesto come avresti voluto essere aiutata nello spostamento? Il lettino in questione era regolabile in altezza? E c’era un sollevatore disponibile, o del personale formato in grado di aiutarti? Come si sono svolte, infine, le manovre di spostamento per raggiungere il lettino (e viceversa)?
«In realtà, fino a 15 anni fa, camminavo con difficoltà, ma ero sufficientemente autonoma e avevo solo bisogno di un piccolo aiuto nel salire sul lettino. Se poi non se ne rendevano conto, lo chiedevo io senza timore e dunque non c’erano molti problemi. Dopo tanti anni, però, vedo che le cose non migliorano, e dato che sono in carrozzina e sono molto alta, devo farmi accompagnare tuttora da mio padre, o da una donna forzuta, per farmi mettere sul lettino.
Purtroppo al Consultorio c’è poco spazio e il lettino non è accessibile facilmente. Quest’ultimo, pur essendo elettrico, va solo in alto a partire da 70 centimetri, ma non si abbassa al di sotto di quella misura; pertanto, una persona bassa, o chi è in carrozzina, non riesce a fare un trasferimento orizzontale agevole e quasi in autonomia. Siccome continuano a non esserci aiuti, quest’anno ho provato a chiedere con due settimane di anticipo al Consultorio se mi procuravano un sollevatore, ma mi hanno risposto che non era possibile, e che non si poteva nemmeno prendere in prestito da altri reparti. Allora ho chiesto di andare nel reparto interno all’ospedale di ostetricia, pensando che fosse più ampio e con ausili migliori. Ho quindi telefonato anticipatamente per spiegare il mio problema, ma anche lì mi sono sentita rifiutare il sollevatore; anzi, l’infermiera mi ha quasi deriso, dicendo che “loro sono abituate alle emergenze”, e potevano mettere anche una persona svenuta sul lettino senza difficoltà, quindi non dovevo preoccuparmi. Infatti, al mio arrivo, l’ambulatorio era così stretto che con le ruote pestavo letteralmente i piedi della dottoressa; inoltre, ho dovuto far togliere la sedia e il paravento rinunciando alla mia privacy.
Il lettino era talmente malridotto che quei ferri che tengono sollevate e divaricate le gambe erano bloccati e non più estraibili, cosicché era ancora più difficile salire, mentre l’infermiera e la dottoressa non sapevano da che parte prendermi per mettermi sul lettino stesso; sostenevano cioè di non esserne capaci (peso 63 chili!), e non hanno nemmeno chiamato qualcuno del personale per farsi aiutare… (diversamente da quello che mi avevano promesso al telefono). Io, spazientita, nuda e umiliata, ho chiamato per l’ennesima volta mio padre, che aspettava fuori, perché mi prendesse in braccio e mi mettesse sul lettino. Così, con l’aiuto della mia badante/colf che mi ha svestita e sistemata, ho fatto il PAP test e la visita ginecologica. La stessa manovra è stata eseguita da papà e dalla badante per scendere dal lettino: con l’infermiera e la dottoressa che guardavano e basta… anzi, facevano pure qualche stupido commento su quanto fossi brava ad usare la carrozzina anche in così poco spazio… e chiaramente, essendo troppo educata, non commentavo ad alta voce, ma mi concentravo sulle manovre faticose e pericolose, in quelle condizioni di discesa dai trampolini e di vestizione!».

Per altri tipi di visite che comportano l’uso di apparecchiature particolari (ad esempio il mammografo, l’apparecchio per eseguire la densitometria ossea ecc.), hai riscontrato anche lì difficoltà nel dover utilizzare tali strumentazioni?
«
Purtroppo anche eseguire la mammografia è una vera avventura e devo sempre andare con mio padre (grazie a Dio finché c’è lui, che alla bella età di 75 anni è ancora molto capace!) perché il mammografo fa le analisi solo a persone che stanno in piedi, e non si abbassa sufficientemente per chi è in carrozzina. Infatti, ogni volta che vado, mi devo far prendere in braccio da mio padre che mi mette su una seggioletta girevole, elevabile e con le ruotine, simile a quelle da ufficio, ma che non ha i freni di sicurezza, ha i poggioli ai lati che non rendono facile il trasferimento, ha lo schienale basso che non dà stabilità a chi ha poco controllo del tronco e ha un sottilissimo appoggio per i piedi che scivolano facilmente. Così mio padre si deve mettere lo schermo per i raggi X, e deve rimanere a sorreggermi durante la radiografia.
Proprio in questo periodo dovrò tornare a farmi visitare, perché ho paura di ammalarmi come mia madre, ma è così umiliante andare in un ospedale concepito solo per i malati che camminano, e non anche per i malati che sono in carrozzina, che mi viene da piangere!».

Hai mai pensato di fare dei ricorsi?
«Non ho mai fatto ricorso perché una volta sola mi sono rivolta alla giustizia per i maltrattamenti che avevo subìto dal mio ex convivente, ma i poliziotti erano tutti uomini e ho avuto paura. Così per me essere una donna davanti alla legge si è rivelato come un ulteriore handicap, e mi ci è voluto molto tempo per recuperare un po’ di fiducia e autostima. Quindi non credo molto nella giustizia, e in questo mondo di continui femminicidi, è difficile farsi ascoltare.
Avrei potuto probabilmente allearmi con altre donne che hanno il mio stesso problema e utilizzano questo stesso ospedale, ma mentre prendevo coscienza che bisognava fare qualcosa, mia madre si è appunto ammalata e per quasi sei anni abbiamo lottato, ma lei ci ha lasciato nel giugno di quest’anno.
Infine, ho paura che se facessi causa all’ospedale, poi rischierei di trovarmi di fronte a “medici nemici” o ad ulteriori ostacoli burocratici e le cose potrebbero peggiorare ancora».

In generale e al di là delle tue difficili esperienze personali, qual è la tua impressione rispetto all’accesso ai servizi sanitari da parte delle persone con disabilità?
«Chiaramente non tutti gli ospedali e le persone sono uguali e in genere nei grandi ospedali delle Province e dei capoluoghi di Regione del Centro Nord c’è più accessibilità e personale preparato, anche se, oltre all’Emilia Romagna, personalmente ho avuto modo di frequentare solo la Toscana, il Veneto e la Lombardia».

Vuoi aggiungere qualche altra considerazione che potrebbe essere utile a migliorare i servizi sanitari?
«In un periodo di crisi economica come questo, dove si parla continuamente di tagli alla spesa e alla sanità pubblica, non vedo molti margini per implementare spazi ambientali, accessibilità, ausili appositi, e per fare corsi di formazione che rendano il personale ospedaliero capace di ricevere e supportare le esigenze di casi di disabilità grave come il mio.
Purtroppo solo alcune strutture specializzate per la cura o la riabilitazione hanno una buona capacità ricettiva, ma dopo la rieducazione, il ritorno nella “società dei sani” è ancora pieno di insidie. Inoltre il maschilismo, l’inciviltà e la mancanza di educazione nelle scuole non fanno intravvedere un miglioramento in tempi brevissimi, perché prima devono cambiare le leggi e la mentalità che la società ha sulle donne in generale, e poi, forse, cambierà l’atteggiamento verso le donne con disabilità».

La presente intervista è già apparsa nel sito del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) e viene qui ripresa, con alcuni lievi riadattamenti al contesto, per gentile concessione.

Il Gruppo Donne UILDM
Quattordici eventi e altrettante pubblicazioni della collana Donna e disabilità, tantissimi articoli, interviste, recensioni, adesioni a campagne ecc., organizzati per temi, varie segnalazioni di film attinenti alle donne disabili, centinaia di film attinenti alle donne disabili, centinaia di segnalazioni bibliografiche e di risorse internet schedate: è questa la produzione del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), che costituisce certamente una delle esperienze più vive e interessanti – nel campo della documentazione riguardante la disabilità – avviata nel 1998 in modo informale.
Gli obiettivi originari erano da una parte quello di raggiungere le pari opportunità per le donne con disabilità, attraverso una maggiore consapevolezza di sé e dei propri diritti, dall’altra cogliere la “diversità nella diversità”, riconoscendo la specificità della situazione delle donne disabili.
Poi, nel corso degli anni, il Gruppo ha cambiato in parte il proprio àmbito d’interesse, oltre a non essere più composto da sole donne e a non occuparsi esclusivamente di questioni femminili. La stessa disabilità è diventata uno dei tanti elementi in un percorso di integrazione e di apertura su più fronti.
Nel 2008, per festeggiare il suo decimo “compleanno”, il Coordinamento del Gruppo Donne (composto allora da Francesca Arcadu, Annalisa Benedetti, Valentina Boscolo, Oriana Fioccone, Simona Lancioni, Francesca Penno, Anna Petrone, Fulvia Reggiani e Gaia Valmarin), decise di investire di più in informazione e in documentazione, recuperando i propri obiettivi originari, senza rinunciare all’apertura quale tratto distintivo. E così – come in un laboratorio – è iniziato un lavoro finalizzato a organizzare e rendere fruibili, attraverso il proprio spazio internet, le informazioni che circolano all’interno del Coordinamento stesso.
Un importante, ulteriore salto di qualità, infine, si è avuto con la creazione di un repertorio (VRD – Virtual Reference Desk), che raggruppa le varie risorse fruibili in internet (in lingua italiana) di e su donne con disabilità.
Nel 2011 il Gruppo Donne UILDM (che è anche su Facebook) ha anche ricevuto da Decima Musa Caravaggio (Associazione Culturale Europea-Compagnia Teatrale) il Premio Decima Musa «per il valore di un’attività finalizzata al raggiungimento delle pari opportunità, che sottolinea e affronta il problema specifico e la situazione delle donne disabili».

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