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Il sottilissimo confine tra speranza e illusione

Cerimonia di apertura dei Mondiali di Calcio di Brasile 2014: Juliano Pinto con l'esoscheletro

Juliano Pinto con l’esoscheletro, durante la cerimonia di apertura dei Campionati Mondiali di Calcio in Brasile

Una frazione di secondo. L’inquadratura dura solo un attimo. Un “arbitro bambino” alza il cartellino rosso e i ballerini della cerimonia di apertura si arrestano. Il “giudice di gara” corre a bordo campo dove Juliano Pinto, paraplegico brasiliano con un esoscheletro, tira un calcetto a un pallone.
Molte regie dei network TV internazionali si sono persi lo storico gesto durato pochi frame. L’hanno inquadrato per un momento e poi via verso la festa di apertura dei Mondiali di Calcio in Brasile. Il protagonista di quest’istante è un ragazzo paraplegico di 29 anni in sedia a rotelle che grazie a gambe bioniche si alza in piedi e dà il calcio d’inizio. Di cinguettio in cinguettio la foto vola sui social network (@walkagainprojct). Guardo il ragazzo ingabbiato in un esoscheletro bionico a controllo cerebrale e penso a un bambino malfermo sulle gambe nell’atto di spingere la palla con il piede. Così imponente grazie alla supertuta che lo fa somigliare a Robocop e così fragile dentro quell’armatura mentre si alza dalla sedia a rotelle.

Mi sembra di rileggere sul suo volto quell’emozione/stupore di tornare a guardare il mondo da un’altezza considerata nella norma. L’ho provata e ho cercato di raccontarla quando testai un esoscheletro simile (a controllo meccanico e non cerebrale. Qui i dettagli tecnici del nuovo modello e qui un altro mio testo). Immagino lo sforzo fisico e psicologico di quel ragazzo a dare il via ai Mondiali di Calcio. Il suo gesto meccanico, ma dettato dalla sua volontà, in mezzo ai gesti atletici dei migliori calciatori al mondo. Macchine perfette, corpi scolpiti… il calciatore è il “figo” per eccellenza. Ecco quindi il sogno che si realizza.
È difficile trasmettere la complessità di quel movimento. Sono stato “bipede” prima di avere l’incidente e mai avrei pensato che un atto tanto banale, come tirare un calcio a un pallone, fosse in realtà tanto complesso. Una volta avrei visto il pallone e quasi senza impegno… tac un bel calcione. Pensiero e azione. Millesimi di secondo. Il cervello che comanda e il corpo che esegue.
Compresi dove stava la difficoltà a 26 anni, adagiato in un letto di ospedale. L’avrei capito quando di nascosto (forse un po’ anche da me stesso, per paura della terribile delusione) chiudevo gli occhi e concentravo tutto il mio pensiero sul pollice del piede. Volontà e cervello impegnati allo stremo per impartire un ordine semplicissimo: «Muoviti!». Il «muoviti è un ordine» è diventato pian piano un «ti prego dai un segno di vita». Nulla, se non cloni temporanei, micromovimenti dovuti a contrazioni involontarie dei muscoli. Una volta immaginai pure che mi stessero premendo un piede. Nulla. Rimasero deluse anche quelle persone che per curiosità o speranza mi toccavano mentre ero distratto (come si fa quando si arriva alle spalle di una persona). Nulla.
La paraplegia non è soltanto il non movimento. È anche questo. È il non sentire le sensazioni sulla pelle dal petto in giù (almeno per il mio tipo di lesione), è il non sentire se hai mal di pancia, il non controllare le proprie funzioni fisiologiche. È il sentirsi inferiore agli altri (e la società contribuisce molto a questa sensazione), perché non hai le stesse capacità degli altri. Poco importa che tu ne abbia altre, ma in cima a una scala – che porta magari al tuo vecchio impiego – non ci arriverai mai. È il vivere in attesa che qualcosa cambi, che si arrivi a una cura.

E ora, in mondovisione, quel gesto, semplice e banale, che viene compiuto da una persona in carrozzina. Sotto gli occhi di milioni, se non miliardi, di persone. E un fremito mi corre lungo la schiena. Si è riacceso il motore della speranza, ma anche quello della paura. Il terrore che “si gridi al miracolo” (purtroppo come ho letto in vari articoli sul web, accanto all’errore di indicare il ragazzo come tetraplegico – lesione che non consente l’uso degli arti superiori – invece che paraplegico).
Io ho provato quelle gambe bioniche, e anche se si tratta di una versione avanzata, non è ancora una soluzione per tutti. Quel bellissimo oggetto frutto del lavoro di 170 studiosi (e molte migliaia impegnate su altri progetti) è un passo avanti nella ricerca.
La speranza non deve diventare illusione. Il confine è sottilissimo. In attesa dell’evoluzione della “specie degli esoscheletri”, godiamoci lo spettacolo dei mondiali e Forza Azzurri!

Il presente testo è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Quel calcio alla disabilità”). Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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