In riferimento alla competente e precisa analisi di Giuseppe Arconzo, pubblicata nei giorni scorsi da «Superando.it», sul tema I concorsi pubblici e le persone con disabilità cognitive, vorrei a mia volta proporre qualche riflessione.
Va innanzitutto detto subito che la Legge 68/99 [“Norme per il diritto al lavoro dei disabili”, N.d.R.] è purtroppo lacunosa e poco chiara nelle sue formulazioni su queste tematiche. Essa, infatti (articolo 1), distingue effettivamente le persone «con minorazioni psichiche» dai «portatori di handicap intellettivo», e nel prosieguo del testo riconosce direttamente ai «lavoratori con minorazioni psichiche» (articolo 9, comma 4) l’avviamento nominativo attraverso convenzioni (anche se non è chiaro se questo valga anche per il pubblico impiego). D’altra parte, entrambe le categorie di persone beneficiano degli sgravi fiscali automaticamente (articolo 13, comma 1, punto a).
La prassi diffusa nelle Province dove esistono i SIL (Servizi di Inserimento Lavorativo) è quella di attivare automaticamente le convenzioni per le persone con disabilità intellettiva e relazionale (articolo 11, comma 4), anche se questo avviene prevalentemente nel settore privato.
Purtroppo, le esperienze che conosco rispetto al pubblico impiego – ovvero quelle della Campania, avviate qualche anno fa da parte della Regione – fanno riferimento a una selezione dalle liste provinciali basata su determinate caratteristiche, applicando quindi l’articolo 9, comma 5 della Legge 68, seppure con qualche forzatura, ma in questo caso positiva, perché nella mia Regione i lavoratori con disabilità psichica o relazionale non vanno a lavorare nel settore privato, per mancanza di competenze degli uffici provinciali del collocamento mirato.
Ebbene, in quei casi veniva richiesta specificamente la condizione di disabilità intellettiva per presentare domanda di candidatura. Purtroppo, non essendo stata minimamente attivata una modalità di “collocamento mirato” (il reclutamento non prevedeva alcun sostegno particolare al momento dell’avviamento al lavoro), nella quasi totalità le persone assunte svolgono mansioni – quando le svolgono – che non valorizzano certo le loro capacità né rafforzano le loro competenze potenziali.
Nel campo della non discriminazione e dell’uguaglianza di opportunità, vorrei poi segnalare un altro paio di elementi utili ad affrontare le contraddizioni dell’attuale legislazione.
Il primo è contenuto nella trasposizione della Direttiva 78/2000/CE nella legislazione italiana, tramite il Decreto Legislativo 216/03. L’articolo 3, comma 1 di quest’ultimo prevede che «il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale» si applichi «a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato» e sia «suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme previste dall’articolo 4, con specifico riferimento alle seguenti aree: a) accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione […]».
Allo stesso articolo 3, poi, il cosiddetto “Decreto Lavoro” (Decreto Legge 76/13, convertito dalla Legge 99/13), ha aggiunto lo scorso anno – in seguito alla nota condanna verso l’Italia da parte della Corte di Giustizia Europea (Causa C-312/11, Commissione contro Repubblica Italiana), causata proprio dalla non corretta trasposizione della Direttiva 78/2000 sul lavoro delle persone con disabilità – il comma 3 bis, ove si scrive che «al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente [grassetto nostro nella citazione, N.d.R.]».
Il secondo elemento che vorrei segnalare è dato dalla legislazione antidiscriminatoria italiana (Legge 67/06) che consente, anche se in maniera discrezionale da parte del giudice, di rimuovere eventuali discriminazioni in tutti gli àmbiti possibili.
Anche alla luce di tutto quanto scritto, dunque, appare evidente che nell’àmbito dei concorsi pubblici, il sistema migliore di tutela sarebbe uno specifico provvedimento legislativo o l’emanazione del regolamento previsto dal Decreto 165/01 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), su cui ampiamente si è soffermato Giuseppe Arconzo.
Una notazione conclusiva: detto che a livello internazionale piuttosto che di “disabilità cognitiva” si usano i termini “disabilità intellettiva e relazionale”, credo sia opportuno ricordare una volta di più ciò che si scrive al Preambolo (e) della Convenzione ONU, ovvero che «la disabilità è […] il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri», sottolineando, poi, nel Preambolo (j), che vi sono persone le quali – per essere tutelate nei loro diritti umani – «richiedono un maggiore sostegno». E questo, quindi, anche nell’accesso ai concorsi pubblici.