“Dopo di noi”: costruire il futuro, conoscendo il presente

«I nostri figli – scrive Gianfranco Vitale, padre di una persona con autismo, inserendosi in un dibattito quanto mai vivo, animato anche dal nostro giornale – avranno un presente, e di conseguenza un futuro, solo a condizione che i loro diritti siano veramente riconosciuti, rispettati e soprattutto applicati». E aggiunge: «Il “dopo di noi” dovrebbe cominciare col “durante noi”, aggredendo sistematicamente da subito alcuni nodi irrisolti»

Giovane con autismo

Un giovne con autismo

Mi pare molto interessante e utile la discussione che ha preso avvio di recente nel web e anche sulle pagine di «Superando.it», riguardante il cosiddetto “dopo di noi”.
Sono il padre di un soggetto autistico di 33 anni, ospite di una comunità residenziale di Torino, e francamente – lo dico dopo aver letto l’intervista a Gianluca Nicoletti, pubblicata dall’Agenzia «Redattore Sociale» – non mi sono mai illuso, in questi anni tormentati, che «qualcuno penserà ai nostri figli quando noi saremo troppo stanchi», né ricordo di essere mai entrato «in un circolo magico» dal quale, giocoforza, diventerebbe ora urgente uscire.
Ho fatto, e faccio, i conti con la difficile realtà di tutti i giorni che riguarda mio figlio, più che con i sogni e la magia di un mondo che (purtroppo) non esiste né mai esisterà. Dovrei chiedermi piuttosto dove si trovassero, in questi stessi anni, coloro i quali solo di recente hanno preso coscienza dell’esistenza di un problema sicuramente drammatico.
Ciò che intendo dire è che la questione legata al futuro dei nostri figli, con tutto il carico di preoccupazioni che ne consegue, è tutt’altro che “nuova”. Si sconta un pesante ritardo di analisi ed elaborazione di proposte, della cui responsabilità molti tendono a sgravarsi in un rituale, tutto italiano, che porta inevitabilmente a individuare sempre nell’altro il principale artefice di una condizione che è andata aggrovigliandosi certo non per caso.
Poco si è fatto per inculcare nei genitori la cultura dei diritti esigibili di cui, assai opportunamente, Maria Grazia Breda ha ricordato l’esistenza, in un altro servizio pubblicato da «Redattore Sociale». A chi sarebbe spettata questa fondamentale funzione “educativa” se non alle associazioni di familiari più rappresentative? Non mancheranno i distinguo e le precisazioni, ma io penso che a prevalere siano stati quasi sempre i tatticismi e le soluzioni al ribasso. Si è affermata l’idea messianica della «goccia che prima o poi scalfirà la roccia…», in una visione idealistica destinata magari a garantire il Paradiso a quante/i l’hanno declamata o la declameranno, ma che, in compenso – peccato sia così – costituisce alla prova dei fatti solo un’ottima ipoteca per l’inferno che quotidianamente vivono i nostri figli!
Serve dunque cambiare passo e occorre farlo proprio in questa direzione: i nostri figli avranno un presente, e di conseguenza un futuro, solo a condizione che i loro diritti siano veramente riconosciuti, rispettati e soprattutto applicati.

Dove per altro divergo dal pensiero di Maria Grazia Breda è nell’idea che la deriva che oggi coinvolge tante persone autistiche non sia anche figlia delle scelte sbagliate, o delle non-scelte, compiute nel corso degli anni dallo Stato. Credo infatti che le Istituzioni portino responsabilità pesantissime al riguardo. I 4.500 euro a persona (ma spesso si tratta di somme più importanti), garantiti ogni mese ai partner privati, dai protocolli e dalle intese siglate con le Istituzioni pubbliche, dovrebbero legittimare – e anzi imporre a queste ultime, in sinergia con le associazioni – un monitoraggio costante e puntuale rispetto al merito delle iniziative proposte, alla coerenza dei progetti individualizzati, al raggiungimento degli obiettivi prefissati: pena il non rinnovo delle convenzioni.
La realtà dice invece che il sistema è pesantemente condizionato da una delega molto estesa che coinvolge non solo i familiari (e questo almeno umanamente si può comprendere) e le associazioni, ma soprattutto le Istituzioni (cosa, viceversa, assolutamente incomprensibile, tanto più perché si tratta di soldi che appartengono all’erario pubblico), che frequentemente abdicano al loro fondamentale diritto/dovere di controllo e favoriscono in tal modo un laissez-faire che produce e amplifica l’improvvisazione gestionale e terapeutica, la presa in carico formale, gli abusi farmacologici, il non ascolto, facendoli diventare i tratti peculiari di un fare estemporaneo e votato al ribasso che oggi accomuna larga parte delle strutture ospitanti soggetti autistici. È corretto dubitare, alla stregua di queste considerazioni, della congruità dell’intervento istituzionale?

Vorrei ora riflettere su un altro aspetto legato indissolubilmente al “dopo di noi”: a mio parere il più importante. Dico questo perché se anche, per pura ipotesi, i controlli di cui ho parlato fossero condotti, a partire da domani, nel modo più consono ed efficace, resterebbe irrisolta la grande questione legata al tipo di modello abilitativo da proporre ai nostri figli nelle comunità in cui essi vivono (o vivranno).
In altre parole, se non si scioglie questo nodo, potremmo, paradossalmente, ritrovarci in presenza di realtà stupende e moderne sotto il profilo strutturale, ma del tutto carenti sotto quello educativo, l’unico – giova ricordarlo – in grado di assicurare una maggiore autonomia e, per conseguenza, una migliore qualità della vita alle persone autistiche.
Ciò che oggi caratterizza negativamente buona parte delle strutture presenti sul territorio è proprio la qualità mediocre dell’offerta educativa, tipica delle classiche “comunità handicap” formate da soggetti con sindromi neuro psico patologiche profondamente diverse da quelli che sono i tratti distintivi dell’autismo. Ciò si traduce fatalmente in pura assistenza e custodia, perciò in un approccio lontanissimo dalle esigenze e dai bisogni delle persone autistiche.
Francamente non credo che si sia oggi troppo lontani da quella dimensione manicomiale di cui parlava nella sua intervista Nicoletti. Ciò accade, a mio parere, a causa di due ordini di motivazioni: quella – gravissima – appena richiamata, relativa a un approccio educativo carente, se non addirittura assente, e l’altra, altrettanto grave, del sopravvivere di tare ideologiche secondo cui, per buona parte della psichiatria italiana, l’autismo continua a essere fondamentalmente solo una malattia mentale da contrastare attraverso un pesante approccio farmacologico.

Alla luce di queste considerazioni mi sento dunque di dire che il “dopo di noi” dovrebbe cominciare col “durante noi”, aggredendo sistematicamente da subito i nodi che ho testé richiamato, senza nutrire la pretesa di esorcizzarli o rinviarli sine die.
Il giusto approdo al “dopo di noi” si realizzerà solo a condizione che le associazioni diventino protagoniste reali del cambiamento, facendo sedimentare una cultura del diritto nelle famiglie e rendendosi portatrici di un progetto strategico complessivo che le collochi in una condizione di effettiva parità con gli altri partner, all’interno dei tavoli istituzionali in cui auspicabilmente si assumeranno scelte importanti e forse decisive per il futuro dei nostri figli. Solo così la “rete”, di cui spesso si sente parlare (ahimè, solo parlare) cesserà di essere il contenitore vuoto o la mera espressione semantica che è abitualmente, per diventare un laboratorio di idee ed esperienze, dove sviluppare e arricchire contenuti finalmente all’altezza dei bisogni speciali di quelle speciali persone che sono i nostri figli autistici.
C’è bisogno di un’associazione forte, coesa e unitaria, che superi antiche divisioni e parli con una voce unica e autorevole. Le divisioni, peggio ancora i settarismi, sono spesso l’ostacolo principale che si frappone al raggiungimento di obiettivi sicuramente non facili.

Le cosiddette notorietà dei singoli, poi, possono rivelarsi preziose solo a condizione che siano parte del percorso condiviso che ho delineato. Ci sono molti “non noti” che ogni giorno combattono tenacemente, in modo umile e oscuro, battaglie difficili, senza le quali i loro figli certamente vivrebbero ancor più ai margini di un contesto civile. Non hanno il supporto di televisioni e giornali, su di loro non si accendono i flash e i clamori della notorietà, spesso non godono nemmeno del sostegno di associazioni che si guardano bene dall’avvicinarsi a realtà molto più diffuse di quanto si immagini. Credo che sia soprattutto a loro che occorra rivolgersi, per conoscere – di più e meglio – la vita di tante persone che non vivono più in famiglia ma in comunità residenziali.
Occorre ripartire da qui, dai tanti errori commessi in passato per costruire metodologie, strategie, alleanze in grado di rispondere efficacemente ai complessi bisogni delle persone autistiche: difficile, insomma, costruire il futuro se non si conosce il presente… Confesso che io sono stato, e sto, da quella parte!

Padre di Gabriele (autistico), insegnante e scrittore, autore del libro Mio figlio è autistico (Vannini, 2013).

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