La ricerca ci riguarda, ma quale ricerca?

«La ricerca medica è necessaria – scrive Giampiero Grifrfo -, ma altrettanto necessaria è quella relativa alle discriminazioni che impediscono la piena partecipazione delle persone con disabilità alla vita della società. Questo tipo di ricerca, però, in Italia non si fa e per questo è necessario costruire una presenza qualificata nelle università e nei centri di ricerca, per fare emergere studi che dimostrino quanto siano violati i nostri diritti umani»

Realizzazione grafica con vari parallelepipedi e sopra altreattante persone. Quella con disabilità è più in basso di tuttiCi ha riguardato la Notte Europea dei Ricercatori, celebrata il 26 settembre scorso? Nella tradizionale forma di pensare le persone con disabilità, la ricerca è vista come ricerca in àmbito medico, ricerca per la cura delle malattie, attraverso farmaci e protocolli specifici. In realtà, come recita la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (Preambolo e), «la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri». Questo significa dunque che la ricerca medica è necessaria (e dovrebbe essere finanziata dal settore pubblico, per non condizionarne l’obiettività e non farla dipendere da interessi di parte), ma altrettanto necessaria è quella relativa agli ostacoli, alle barriere e alle discriminazioni che impediscono la piena partecipazione di persone con disabilità alla vita della società, in condizioni di eguaglianza con gli altri.

Ma questo tipo di ricerca si fa in Italia? Se scorriamo le cattedre universitarie, analizziamo la produzione scientifica e le riviste specializzate, i convegni e i seminari promossi da atenei ed enti di ricerca, vediamo che in questo àmbito – oltre ai temi medici – al massimo si arriva a qualche convegno sull’inclusione scolastica (sempre più problematica), su argomenti tecnici legati alla rimozione delle barriere architettoniche, sui costi delle politiche sociali e pensionistiche. Insomma, siamo relegati a come ci vedono “gli altri” e una serie di domande essenziali per la nostra inclusione nella società non hanno risposta: qual è la condizione delle persone con disabilità? Quanto è accessibile una città? Qual è il livello di fruizione dei mezzi di trasporto urbani, dei treni, delle navi? Quanto sono accessibili i servizi turistici? E gli impianti sportivi? Quante persone con disabilità viaggiano in treno, in aereo? Quali sono gli ostacoli che impediscono di trovare un lavoro? Quanto sono rispettate le legislazioni sui siti web pubblici? Quante sono le Regioni che offrono servizi per la Vita Indipendente? Qual è il fabbisogno di interventi per il “dopo di noi”? Come è applicata la legge sull’amministratore di sostegno? Qual è il carico economico che una famiglia sostiene per una persona con disabilità? Come i servizi sociali dovrebbero essere riformati per essere in linea con la Convenzione ONU? Qual è il rapporto costi/benefici di interventi di sostegno alle persone con disabilità?

Si potrebbe continuare con queste domande su tanti campi dove i nostri diritti sono violati. Ma le nostre università e i centri di ricerca se ne occupano? Purtroppo no, noi esistiamo solo nel campo medico (ma come malati), in quello sociale (ma come assistiti), in quello economico (ma come parassiti) e in quello giornalistico (ma come poverini e sfigati).
Abbiamo dovuto creare un sito come «Condicio.it» per raccogliere i dati che ci riguardano. Personalmente, poi, collaboro da poco tempo con un progetto europeo che studia la cittadinanza attiva delle persone con disabilità. Ebbene, in Italia non esistono ricerche sull’argomento. Nessuno, cioè, ha studiato l’evoluzione del movimento italiano di promozione e tutela dei diritti. E ancora, nel nostro Paese, al contrario che in altri Stati europei e americani, dove sono attive reti e collaborazioni tra università, sono pochissimo sviluppati i cosiddetti Disability Studies. Una sola rivista italiana, infatti, se ne occupa («Italian Journal of Disability Studies»), anche se il prossimo anno ne usciranno altre due. In altri Paesi come il Regno Unito, gli Stati Uniti, il Canada ecc., la partecipazione di ricercatori e professori con disabilità a livello universitario è cosa acquisita, ma in Italia?
Esempi di corsi universitari legati alla Convenzione ONU si contano sulle dita di una mano (a Padova, a Bergamo), un panorama, questo, in cui va certamente segnalato il CeRc, ovvero il Centre for Governmentality and Disability Studies “Robert Castel” dell’Università di Napoli Suor Orsola Benincasa, i cui direttori provengono dal mondo accademico (il professor Ciro Tarantino) e dall’associazionismo (il sottoscritto).
Si tratta di un segnale chiaro: il movimento italiano delle persone con disabilità deve costruire una presenza qualificata nelle università e nei centri di ricerca, per fare emergere studi che dimostrino quanto siano violati i nostri diritti umani e ricerche che testimonino i progressi (o i regressi) nel godimento ed esercizio dei nostri diritti, le investigazioni sulla nostra reale condizione di vita.

Lo scorso anno ebbi occasione di partecipare a un convegno sulla disabilità all’Università di Napoli, nell’introduzione del quale l’attuale responsabile del Dipartimento di Scienze Sociali aveva affermato: «Con gli studi sulla disabilità non si fa carriera!». E come mai, allora, si fa carriera nelle Università di Salamanca (Spagna), di Leeds (Inghilterra), di Galway (Irlanda)? Quella responsabile non conosce docenti come Colin Barnes, Mark Priestley o Gerard Quinn?
Proprio per combattere questa ignoranza, il tema della ricerca ci riguarda, e tanto!

Componente dell’Esecutivo Mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International).

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