Non malati cronici, ma Persone libere di vivere come tutti

«Quello che dobbiamo contrastare – scrive Giovanni Merlo, a proposito di una Sentenza del TAR della Lombardia – è l’antica ma sempre presente e forte equivalenza che fa di una persona con disabilità un malato cronico, le cui uniche rivendicazioni accettabili siano quelle di avere più ore di cura e di assistenza». «Quello che vogliamo sostenere – aggiunge – è il diritto di tutte le persone con disabilità a vivere prima di tutto nella società, con gli stessi diritti e le stesse opportunità degli altri»

Uomo con disabilità in carrozzinaIl 6 marzo scorso la Quarta Sezione del TAR della Lombardia (Tribunale Amministrativo Regionale) ha accolto il ricorso presentato dall’Associazione Senza Limiti di Milano che aveva chiesto l’annullamento del bando di gara per l’affidamento dei servizi presso il Centro Diurno Disabili (d’ora in poi CDD), promosso dall’Associazione Speciale Consortile Insieme per il Sociale, costituita dai Comuni di Cinisello Balsamo, Cusano Milanino, Cormano e Bresso.
Motivo del ricorso, la richiesta nel bando, per le figure del coordinatore e dell’educatore, del Diploma di Laurea in Scienze dell’Educazione e del Diploma Triennale di Educatore Professionale. Il ricorso richiedeva invece, come requisito essenziale, il possesso del titolo di Educatore Professionale rilasciato dalle Facoltà di Medicina e Chirurgia (Decreto Ministeriale 520/98, con laurea di Classe SNT2).

Ho letto il ricorso promosso dall’Associazione Senza Limiti, la Sentenza del TAR e il precedente parere del Difensore Civico della Regione Lombardia. Con argomentazioni molto simili, queste tre realtà affermano più o meno lo stesso concetto: il CDD è una struttura sociosanitaria finanziata in prevalenza dal Fondo Sanitario Regionale. La condizione per poterne essere utenti è di essere persone con disabilità grave e gravissima, bisognose quindi di particolari cure e attenzioni di carattere sanitario. Il coordinatore e gli educatori che vi lavorano devono avere una formazione di base prevalentemente sanitaria e non sociale e umanistica, altrimenti il loro lavoro risulterebbe inefficace o anzi pericoloso per la salute dei loro utenti.
Il resto delle argomentazioni e dei richiami normativi ruota intorno a questi tre concetti così chiari e così semplici da apparire convincenti. Tanto è vero che le prime reazioni “da corridoio” non riguardano tanto il merito, ma le conseguenze derivanti dall’applicazione di questa Sentenza del TAR: che fine faranno gli educatori che oggi lavorano nei CDD e che dovranno far posto agli educatori “sanitari”? E dove troveremo tutti questi educatori “sanitari” per far funzionare i CDD, dato che gran parte degli educatori laureati proviene dai corsi di carattere educativo e sociale?
Dubbi e domande legittime, ma che credo sia inopportuno o comunque prematuro porsi. Prima di tutto, infatti, è importante verificare pubblicamente il consenso attorno alle affermazioni contenute in questi pronunciamenti.

Giovane con disabilità in carrozzina, sul tetto di un palazzo, con le braccia aperteQui non si tratta di mettere in discussione le intenzioni dei ricorrenti, né quelle del Difensore Civico o dei Giudici del TAR. Traspare infatti dietro le parole scritte negli atti la (buona) volontà di garantire alle persone con disabilità il trattamento e la cura adeguata alle loro condizioni. Ma è proprio questo il punto. Siamo certi che l’adeguatezza degli interventi dei CDD sia da collegarsi al sapere sanitario?
Nel ricorso presentato da Senza Limiti viene più volte citata la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, che costituisce la più recente e più autorevole norma nel campo della disabilità. Ebbene, proprio la Convenzione traccia il percorso e la mission dei servizi destinati alle persone con disabilità, attraverso le prescrizioni dell’articolo 19, che ha come titolo Vita indipendente e inclusione nella società. Una prescrizione “non certo particolarmente sanitaria” che la Convenzione precisa dev’essere considerata un diritto di tutte le persone con disabilità. E questo è l’unico passaggio in cui si sottolinea – ovvero non viene dato per scontato – che un diritto come quello dell’essere inclusi nella società con le stesse opportunità degli altri debba essere riconosciuto a tutte le persone con disabilità, indipendentemente quindi dalla tipologia di menomazione e dalla “gravità”.
In questo contesto non deve stupire che (al punto b) l’articolo 19 individui l’accesso ai servizi come un diritto, ma vincolato all’obiettivo di «consentire loro di vivere nella società e di inserirvisi e impedire che siano isolate o vittime di segregazione».
Questo, e non altro, è il punto da cui avviare qualsiasi riflessione sui profili degli operatori che devono lavorare nei Centri Diurni. Infatti, l’intero impianto della Convenzione, a partire dalla stessa definizione di disabilità, smentisce chi afferma che esistano persone con disabilità così “gravi” da poter essere solo curate.
Non è del resto un caso che le critiche al sistema regionale lombardo nei confronti delle Unità di Offerta rivolte alle persone con disabilità – come quelle di Cristiano Gori o di Roberto Medeghini – non si siano mai concentrate sul grado di preparazione degli operatori dei servizi: le riflessioni vertono invece sull’eccessiva sanitarizzazione di queste strutture che le incoraggiano ad essere dei dignitosi “cronicari”, dove le persone con disabilità vengono ben curate e ben assistite per l’intera durata della loro vita giovane e adulta, piuttosto che uno strumento di emancipazione e promozione dei diritti e della qualità della vita delle persone con disabilità. Un’assistenza che può prolungarsi per un periodo che può arrivare anche a quarant’anni di permanenza nei CDD, senza alcun realistico sbocco nella vita sociale e comunitaria.

Alcune affermazioni presenti nei documenti esaminati vale la pena riprenderle. Il Difensore Civico Regionale della Lombardia afferma ad esempio, nel suo Parere del 2 ottobre 2013, che «credo non debbano esservi dubbi sul fatto che il soggetto autistico abbia necessità di cure sanitarie».
A questo punto, come movimento associativo, dobbiamo chiedere scusa a tutte le persone con disabilità, e in particolare a quelle con autismo, di non esserci accorti della pubblicazione di questo Parere e di non averlo contrastato con forza. Quello che colpisce, infatti, è la semplicità con cui questo concetto viene espresso, dandolo per scontato. Sei autistico? Allora hai bisogno di cure sanitarie!
Giovane con disabilità insieme alla sorellaSi tratta di un’affermazione, di un’equazione semplicemente falsa e quindi estremamente pericolosa. In primo luogo non esiste un “soggetto autistico”, ma tante diverse persone, di età e condizione diversa e, mi si scusi l’espressione, con “diversi autismi”. L’unico fatto che le accomuna è certamente il diritto ad avere accesso, nei tempi e nei modi opportuni, a percorsi riabilitativi e abilitativi finalizzati, con l’insieme di attività educative, formative e sociali, alla migliore qualità della vita e alla Vita indipendente e inclusione nella società, così come prescritto dal citato articolo 19 della Convenzione ONU.
Il parere del Difensore Civico si basa quindi su un’affermazione falsa che inficia tutti i successivi ragionamenti, i quali portano invece alla conclusione che essendo il “soggetto autistico” (sic) bisognoso di cure sanitarie, non potrà che essere trattato da personale sanitario, educatori compresi.

E passiamo al ricorso presentato dall’Associazione Senza Limiti. In apertura (pagina 3), evidenziata in grassetto, troviamo la seguente affermazione: «Evidenti appaiono infatti i potenziali gravissimi danni che persone non adeguate e non competenti potrebbero arrecare nel rapportarsi a soggetti gravemente compromessi».
Anche in questo caso colpisce come un’affermazione così perentoria non venga in alcun modo giustificata, ma venga semplicemente definita come «evidente». Ma evidente a chi? In base a quali argomenti, tesi, dati, informazioni, ricerche? Non viene specificato. Il fatto che ormai da decine di anni alcune migliaia di persone con disabilità frequentino Centri Diurni, prima chiamati CSE e ora CDD, senza che vi sia notizia di questi «gravissimi danni» causati dall’imperizia degli educatori che lì vi lavorano, non sembra scalfire questa granitica evidenza. Ma non è, ancora una volta, questo il punto.
Infatti, ci troviamo sempre di fronte a un’affermazione che non trova alcuna giustificazione né in ambito normativo né in quello culturale e scientifico, anche se purtroppo gode di un vasto consenso popolare. Si esprime cioè – in modo certo raffinato – che non sia possibile per le persone comuni vivere insieme “a quelle persone”, ovvero i “disabili gravi”, ma che per relazionarsi con loro ci vogliano motivazioni («io non ce la farei!») e competenze specifiche in àmbito appunto sanitario. E questa è una vera e propria pietra tombale sul diritto all’inclusione sociale: com’è possibile, infatti, includere chi, per definizione, debba essere trattato da professionisti specializzati? Quale posto nella società possiamo immaginare per persone così «compromesse» (sic!) da poter subire «gravissimi danni» dalla semplice relazione con persone senza una specifica preparazione sanitaria?

Persone con disabilità intellettiva al lavoro

Persone con disabilità intellettiva al lavoro

Anche in questo caso tutto il ragionamento giuridico che occupa le successive trentuno pagine del ricorso risulta non corretto e non rispettoso dei diritti delle persone che vorrebbe difendere, perché si basa su un assunto non dimostrato, in quanto semplicemente non dimostrabile.

E arriviamo infine alla Sentenza del TAR che, ovviamente, si basa sul ricorso, confermandone le tesi e in particolare affermando che «le attività demandate al coordinatore e all’educatore, in base alla lex specialis, comprendono esplicitamente prestazioni di contenuto sanitario».
La lex specialis che definisce il funzionamento dei CDD in Lombardia è la Delibera di Giunta Regionale 7/18333, una Delibera che, a suo tempo, era già stata valutata come eccessivamente “sanitarizzante” nei confronti di servizi che hanno sempre avuto, sin dalla loro nascita negli Anni Ottanta, una forte vocazione sociale e territoriale. E tuttavia, nonostante quelle critiche, alla lettura di quella Delibera, in nessun passaggio vi si evidenzia il primato assoluto del trattamento sanitario rispetto ad altri àmbiti di interventi e la stessa “classificazione degli utenti” avviene per «bisogni assistenziali, educativi, riabilitativi e sanitari». Inoltre, il personale la cui presenza è definita come obbligatoria deve appartenere alle «aree socio assistenziale, educativa, riabilitativa e infermieristica», e attenzione: saranno le singole strutture a valutare le percentuali «più consone alle esigenze assistenziali degli ospiti, a cui può concorrere anche il personale medico e psicologico».
Ancora, almeno il 50 % dei «minuti di assistenza» dev’essere assicurato da «figure professionali appartenenti all’area educativa, all’area riabilitativa e all’area infermieristica». In questo contesto il progetto individualizzato dovrà avere un carattere «riabilitativo/abilitativo e di socializzazione per ogni ospite». Ho evidenziato in grassetto sottolineato la parola «ogni» perché richiama la parola «tutte» dell’articolo 19 della Convenzione ONU.

Uomo in carrozzina fotografato di spalle nella strada di una metropoliCome si è detto, la Delibera di Giunta Regionale 7/18333 è stata a suo tempo ampiamente criticata per il suo carattere profondamente sanitarizzante nei confronti di una serie di interventi che fino ad allora avevano avuto un carattere fortemente socio educativo. Un processo di sanitarizzazione evidente nella previsione di numerose figure sanitarie, fino ad allora non sempre presenti nei Centri, quali l’infermiere, il terapista della riabilitazione, il medico e lo psicologo; e tuttavia, in nessuna parte della Delibera si fa riferimento a un orientamento sanitario del personale educativo e non viene comunque mai messa in discussione la funzione “socializzante” del CDD.
Anche in questo caso, quindi, un’affermazione non giustificata determina un ragionamento giuridico che deforma la realtà e non la rispetta o la interpreta.

Arriviamo pertanto alla conclusione di queste mie riflessioni. Perché sono radicalmente contrario alle ragioni dei ricorsi e dei pronunciamenti prima del Difensore Civico e poi del TAR? Perché si tratta di motivazioni che, se dovessero essere confermate, cristallizzerebbero la condizione di segregazione di cui sono vittime migliaia di persone con disabilità. Persone per cui si è deciso – collettivamente, ma senza chiedere il loro parere – che l’unico posto dove possano vivere sia un Centro Diurno prima e una Residenza Sanitaria poi.
Non si tratta di negare le esigenze anche sanitarie che le persone con disabilità possono avere, né di negare che sia fondamentale avere operatori sociali (che progettano per e con le persone con disabilità) dotati di una conoscenza anche profonda delle condizioni di salute delle persone loro affidate. Ma ridurre il tutto di una persona ai suoi problemi di salute, più o meno connessi alla sua menomazione, è una grave violazione dei diritti umani che non possiamo più tollerare.
Credo sia infatti nostro compito affermare che qualunque sia la condizione di una persona con disabilità, quest’ultima abbia il diritto di poter vivere con e come gli altri cittadini, anche a costo di modificare norme, abitudini e credenze del modo di vivere della società attuale.
Questo dev’essere l’obiettivo cui deve tendere anche il lavoro dei servizi sociali e di quelli sociosanitari che si rivolgono alle persone con disabilità. E non sarà certo qualche ora di corso di base di carattere sanitario a darci la garanzia che tale compito possa essere assunto e svolto anche dagli educatori che lavorano nei CDD.
Quello che dobbiamo contrastare, in sostanza, è l’antica ma sempre presente e forte equivalenza che fa di una persona con disabilità un malato cronico, le cui uniche rivendicazioni accettabili siano quelle di avere più ore di cura e di assistenza.
Quello che vogliamo sostenere è il diritto di tutte le persone con disabilità ad essere certamente curate, ad avere sicuramente accesso a tutti i trattamenti riabilitativi necessari, ma prima di tutto a vivere nella società, con gli stessi diritti e le stesse opportunità degli altri. Libere di vivere come tutti.

Direttore della LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità), componente lombarda della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap). Il presente testo è già apparso in «Persone con disabilità.it – L’informazione sulla disabilità in Lombardia» e viene qui ripreso, con alcuni adattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.

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