Nella scuola servirebbe un po’ di coraggio

«Alcune delle soluzioni prospettate nella Proposta di Legge sull’inclusione scolastica sostenuta dalle Federazioni delle persone con disabilità – scrivono dal GRIDS (Gruppo Ricerca Inclusione e Diability Studies) – sono condivisibili, ma rimanere nella dimensione da essa delineata, senza collegarla a una visione inclusiva della scuola e dei suoi contesti, implica il rischio di “fare sempre meglio le stesse cose”: serve, invece, un po’ di coraggio, per pensarle e farle diversamente, con tutti i rischi che ciò comporta»

Classe di scuola affollataLa Proposta di Legge 2444, riguardante le norme per migliorare la qualità dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità e con altri bisogni educativi speciali, offre l’opportunità per un confronto articolato sull’insieme dei problemi che si sono aperti all’interno del processo di integrazione e sui percorsi per affrontarli. Da diversi anni, infatti, si è evidenziata una caduta di qualità nell’integrazione scolastica italiana, sottolineata dal disagio delle famiglie, delle associazioni e da analisi, studi e pubblicazioni che hanno visto la presenza anche del nostro gruppo di ricerca*.
Non dobbiamo certamente mettere in secondo piano i risultati ottenuti dal percorso integrativo, ma i segnali di difficoltà dell’integrazione ci sollecitano a una seria riflessione sui motivi che ne hanno ridotto il potenziale per un cambiamento dell’organizzazione e delle prassi scolastiche.
Quali le possibili cause? Nella presentazione della citata Proposta di Legge vengono indicati i tagli alla spesa pubblica, la mancanza di una formazione sulle didattiche inclusive dei docenti curricolari, la crescente precarizzazione dei docenti specializzati per il sostegno; elementi, questi, che vengono individuati come causa della crescente delega del percorso integrativo ai soli docenti specializzati per le attività di sostegno (sovente, e non a caso, indicati semplicemente come docenti di sostegno).
Le variabili citate sono degne di sottolineatura, ma sono deboli e insufficienti a spiegare la natura della delega, anche perché questa si è stabilizzata e rinforzata, nonostante i richiami alla contitolarità e alla coprogettazione delle Leggi (104/92), delle relative Circolari Attuative e delle Direttive Ministeriali che si sono presentate negli anni.
Allora, da dove nasce la delega e cosa l’ha mantenuta nel tempo? Proporre una risposta a questo interrogativo significa non eludere un’analisi dello sfondo teorico e culturale dell’integrazione, evidenziando le sue caratteristiche e le ricadute che ha avuto sui problemi oggetto della Proposta di Legge.

Sfondo dell’integrazione e produzione della delega
Le Leggi 517/77 e 104/92, pur con un peso differente per la variazione del clima culturale e sociale che ne ha caratterizzato la cornice di produzione, assumono, a nostro avviso, almeno due categorie capaci di determinare le prassi educative e sociali che si concretizzano nel meccanismo della delega.
In primo luogo il concetto di abilismo che, nella sua dicotomia deficit/abilità, promuove un’idea di essere umano su una scala di abilità auspicabili e ideali; secondariamente, la categoria deficitaria della differenza come mancanza rispetto a una norma, che viene assunta dalla normativa. Da qui, la necessità della certificazione (si veda anche la Legge 170/10 sui DSA-Disturbi Specifici di Apprendimento) e la produzione degli interventi di compensazione, di adattamento e di normalizzazione (si vedano le formulazioni di Wolf Wolfensberger) scolastica che, nell’area della disabilità, richiedono la presenza e l’intervento dell’insegnante specializzato per il sostegno.
Emerge qui il problema dell’inabilità dell’alunno con disabilità come problema individuale e del conseguente ricorso allo specialismo (diagnosi medica, certificazione, insegnante specializzato per il sostegno), che acquista la priorità rispetto alla responsabilità di tutti gli insegnanti, del contesto scolastico e della sua organizzazione. È in questo passaggio che viene prodotta e legittimata la delega culturale e sostanziale allo specialista, sia esso il neuropsichiatria, lo psicologo o l’insegnante specializzato per il sostegno. In tale prospettiva, l’idea di disabilità come esito di condizioni deficitarie richiede insegnanti con conoscenze, strumenti interpretativi e pratiche didattiche «speciali», in grado di dare risposte ai processi socio-relazionali e di apprendimento che si attivano nella scuola e per i quali la scuola non viene considerata attrezzata (concetto ribadito nel documento sul Disegno Legge governativo della Buona Scuola, e nello specifico a pagina 78 di esso).
La necessità di questo “specialismo” (insegnante specializzato e didattica speciale), basato sul deficit del singolo alunno, sulla sua compensazione e sulla difficoltà della scuola a dare risposte, ha generato e genera percorsi di formazione differenziati (insegnanti curricolari e insegnanti specializzati per il sostegno), favorendo e giustificando una frattura nella professionalità docente e nella responsabilità della presa in carico, non solo degli alunni con disabilità, ma di tutti coloro che hanno difficoltà nel loro percorso formativo. La delega al docente specializzato per il sostegno, inoltre, non riguarda solamente il versante didattico e di organizzazione, ma coinvolge anche il rapporto con le famiglie degli allievi con disabilità, per i quali l’insegnante specializzato (e l’assistente educatore) diventano le principali figure di riferimento.
Di fronte un'assistente, di spalle un ragazzo con disabilitàDa questo punto di vista, quindi, la delega non deriva semplicemente dalla scarsità di risorse oppure da una mancata applicazione della legge dell’integrazione, ma nasce dai presupposti teorici dell’integrazione stessa (norma, abilismo, compensazione, specializzazione, adattamento, riferimento alle condizioni deficitarie) e, soprattutto, dalla differenziazione formativa delle competenze e dei ruoli degli insegnanti.

A questa prima lettura della delega, possiamo aggiungerne una seconda, con il riferimento alla specializzazione e alla cultura relativa alle differenze: da una parte, la specializzazione di un ruolo produce una gerarchia nella quale si attiva la delega alle competenze fra insegnanti, in base al riferimento classe o alunno con disabilità, dall’altra, la suddivisione dei ruoli incrementa l’idea di norma e di deficit, di normale e di anormale e gli stereotipi ad essi collegati.
Questa ricaduta non si limita agli insegnanti, ma coinvolge anche le percezioni degli alunni di una classe: la rappresentazione della normalità, infatti, viene confermata dal docente curricolare e dalle routine dell’apprendimento che egli stabilisce (tempi, compiti, interrogazioni, voti), mentre l’insegnante specializzato per il sostegno rappresenta invece la conferma dell’eccezione.
Infine, vi è una terza lettura della delega che riguarda la resistenza della scuola, dei dirigenti e degli insegnanti verso i processi di cambiamento: non si vuole certo misconoscere la grande mole di esperienze e di pratiche integrative e l’investimento operato da moltissime scuole nella direzione della contitolarità, ma è indubbio che la figura del docente specializzato per il sostegno si sia trasformata da strumento nato per favorire il processo di integrazione, in uno strumento di conservazione e immunizzazione della scuola, per impedire, limitare o tenere sotto governo le richieste di cambiamento dell’organizzazione della classe e della didattica.
Questi i motivi per cui anche i richiami alla contitolarità sono rimasti inerti.
Da aggiungere inoltre che il tema della delega coinvolge anche gli assistenti per l’autonomia, in quanto – sia nel caso di alunni con disabilità complesse che di alunni con meno compromissioni – si incrementa la richiesta di competenze e disponibilità nell’accompagnamento dell’alunno con disabilità.
È un tema controverso che non può essere risolto solo con la formazione episodica e che sottolinea la necessità di riconsiderare tale figura nella sua articolazione professionale e formazione, al fine di dare un’identità adeguata alla sua dimensione.

Formazione e didattica nella prospettiva inclusiva
Se la divisione professionale e la conseguente differenziazione dei ruoli, assieme ad altre variabili, generano la delega, e con essa, come abbiamo visto, la rappresentazione deficitaria della disabilità e del compagno disabile di classe, risulta la necessità di un suo superamento: possono esserci diverse soluzioni, ma quella maggiormente sfidante e incisiva passa da una formazione e da una specializzazione per tutti i docenti, senza suddivisione di ruoli o di cattedre (curricolare e specializzazione per il sostegno), associata a un incremento di docenze per assicurare alla scuola progettazioni e interventi adeguati. Da qui, senza l’alibi della scarsa competenza o della specializzazione dei colleghi, tutti i docenti assumono la responsabilità verso tutti gli alunni della classe.
Il tema della formazione non può tuttavia limitarsi al problema dei ruoli professionali, ma deve interrogarsi anche sullo sfondo teorico che può fondare un’organizzazione scolastica e una didattica inclusive: emerge qui il confronto fra integrazione e inclusione. Se, come è stato brevemente esposto, l’integrazione ha come riferimento l’area dei bisogni educativi speciali – compresa la disabilità – ed è orientata alla compensazione del deficit e all’adattamento ai contesti attraverso l’intervento e il supporto della figura specializzata, l’inclusione si rivolge alle differenze di tutti gli alunni, senza interrogarsi su come adattare le persone a un contesto già dato, proponendo, invece, di modificare epistemologie, culture e pratiche, in grado di passare dall’adattamento al contesto specifico della scuola al cambiamento richiesto alle politiche, all’organizzazione scolastica e alla didattica. La riflessione si sposta, così, dal deficit rappresentato all’interno della persona, al tema delle differenze intese come modo originale, personale, di proporsi nelle interazioni, e agli ostacoli e alle barriere alla partecipazione e all’apprendimento, prodotte dall’organizzazione e dalle pratiche scolastiche.
La didattica inclusiva, infatti, pone questo interrogativo: è possibile parlare di inclusione di alunni con disabilità e altri bisogni educativi speciali quando ci troviamo di fronte alla difficoltà della scuola e degli insegnanti a dare una risposta sia agli alunni che faticano ad apprendere sia a coloro che vengono definiti impropriamente “eccellenze” e, soprattutto, a frenare la dispersione scolastica? (Non possiamo dimenticare, infatti, che il livello di dispersione scolastica in Italia risulta essere tra i più alti d’Europa, con differenze importanti nelle diverse zone del territorio nazionale).
Aula di scuolaIl problema della didattica coinvolge quindi tutti gli alunni e le loro differenze e richiede il superamento dell’omogeneizzazione formativa, ripensando l’organizzazione, i tempi e le metodologie, per incontrare e interagire con le diverse modalità di porsi nelle relazioni, di pensare, di interpretare di tutti gli alunni.
Da questi presupposti consegue che l’educazione inclusiva non si rivolge solo ad alunni con bisogni educativi speciali, ma a tutti gli studenti, e per questo si propone di trasformare il sistema educativo in modo da farlo corrispondere a tutte le differenze presenti in un’aula scolastica. Ed è per questo che abbiamo bisogno di una formazione adeguata e specializzata per tutti i docenti, che non si riduca a domande-risposte, a soluzioni immediate, a suggerimenti di come gestire un problema, ma di una ricorsività fra pensiero e azione che, da una parte, fonda e giustifica le scelte e dall’altra utilizza le informazioni per modificarsi in relazione alle differenze.

In questa prospettiva non è sufficiente la conoscenza dei contenuti (in vista della loro trasmissione), ma è necessaria la padronanza di conoscenze e di strumenti in grado di comprendere come gli alunni interpretano i contenuti, li utilizzano, li elaborano, li automatizzano, li investono (e vi si investono) emotivamente. Centrali sono i processi, centrale è l’insegnante che mette in crisi la sua centralità per incontrare gli alunni, centrale è conoscere chi si ha di fronte, centrali sono la promozione della motivazione e la partecipazione.
Indubbiamente è importante conoscere quali possono essere gli ostacoli prodotti da un deficit, da una difficoltà, da un disturbo, ma non è il deficit la partenza; sono le possibilità che vengono offerte, il modo attraverso il quale l’alunno investe, cerca di interpretare, apprendere, mettersi in relazione con gli altri e sul quale si può innescare la mediazione per l’apprendimento e la partecipazione.
Nella didattica inclusiva, l’obiettivo non è il controllo e l’implementazione, ma capire quali possibilità vengono costruite, quali percorsi l’alunno mette in atto e quali processi si attivano. Stiamo parlando di una formazione di tutti i docenti che abbia come riferimento l’intreccio della disciplina relativa alle materie con processi cognitivi – metacognitivi – stili di apprendimento ed emotivi per incontrare le differenze. Se questo è vero, allora la didattica inclusiva deve innervarsi nella didattica disciplinare e non ridursi ad affiancarsi attraverso il supporto dell’insegnante specializzato, magari tramite semplificazioni o riduzioni.
Ne consegue che il PEI e il PDP [rispettivamente Piano Educativo Individualizzato, riguardante gli alunni con disabilità e Piano Didattico Personalizzato, riguardante gli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento, N.d.R.] non si limitano alla compensazione, non rimangono sempre uguali e indifferenziati: vengono inseriti, invece, nella prospettiva di una progettazione, che non è ridotta a una semplice tecnica gestionale, ma si identifica con l’assunzione di uno sguardo più vasto sulla complessità delle relazioni, dell’apprendimento e della socialità.
L’autovalutazione per il piano annuale di inclusione deve allora occuparsi di tutti gli alunni, della didattica, delle metodologie, dell’organizzazione della scuola e della classe, delle relazioni sociali, dei risultati, delle esclusioni, degli abbandoni, delle bocciature e delle loro cause, mettendo in primo piano l’analisi dei contesti di classe e di scuola come potenziali ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione e non solo il riferimento ai singoli alunni e al loro comportamento.
studio-62Il problema che dobbiamo affrontare è, pertanto, il passaggio dalle “didattiche speciali” integrative alle “didattiche inclusive” che guardano alle differenze intese come modo originale e personale di proporsi nelle interazioni e nell’apprendimento. Questo significa che ordinariamente il diritto all’educazione degli alunni e studenti con disabilità dev’essere garantito attraverso strumenti ordinari, diversi dall’insegnante di sostegno, che rispondano al paradigma inclusivo. Per questo non serve solo la presenza e la formazione degli insegnanti e dei dirigenti, ma anche di formatori inclusivi.
Certo, alcune delle soluzioni prospettate nella Proposta di Legge 2444 sono condivisibili (presa in carico da parte di tutti gli insegnanti curricolari degli alunni con disabilità; numero di alunni nella classe; obbligo di formazione), ma la loro attuazione rischierebbe di non produrre un cambiamento, se non venisse problematizzato lo sfondo integrativo che ispira la Proposta di Legge stessa. Ad esempio, attraverso un percorso che indaghi il significato dei concetti di disabilità e di differenze, oltre un’interpretazione patologica e funzionalista legata al singolo individuo.
Allo stesso tempo, anche l’obiettivo della tutela – insito nella Proposta di Legge – si esporrebbe a un incremento, se non venisse collegato a una visione inclusiva della scuola e dei suoi contesti. Da qui il limite di una Proposta orfana di una prospettiva, che però potrebbe essere recuperata nel corso della discussione.

Qualcuno può pensare che lo sfondo inclusivo qui delineato sia condivisibile ma non realizzabile, facendo, soprattutto, riferimento al qui ed ora, dimenticando che questo qui ed ora è già anticipato dal pensiero e quindi è già superato. Rimanere in questa dimensione implica il rischio della conferma e di semplici aggiustamenti, per fare sempre meglio le stesse cose: serve, invece, un po’ di coraggio, per pensarle e farle diversamente, con tutti i rischi che ciò comporta.
Se ciò non accadesse, potremmo ritrovarci a leggere e a commentare la lettera di una Dirigente Scolastica, inviata a una testata nazionale, nella quale si richiedeva l’aumento degli insegnanti specializzati, perché un alunno con disabilità non aveva potuto partecipare all’inaugurazione dell’anno scolastico per l’assenza dell’insegnante specializzato per il sostegno.

*Medeghini R., Valtellina E. (2006), “Quale disabilità? Culture, modelli e processi di inclusione”, Milano, Franco Angeli – Medeghini R., D’Alessio S., Marra A.D., Vadalà G., Valtellina E. (2013), “Disability Studies. Emancipazione, inclusione scolastica e sociale, cittadinanza”, Trento, Erickson – Medeghini R. (2015), (a cura di), “Norma e normalità nei Disability Studies. Riflessioni e analisi critica per ripensare la disabilità”, Trento, Erickson.

Gruppo di Ricerca Inclusione e Disability Studies (Roberto Medeghini, Fabio Bocci, Simona D’Alessio, Angelo D. Marra, Giuseppe Vadalà ed Enrico Valtellina).

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