Storia di autonomia, di civiltà e solidarietà

«Dopo anni di battaglie in trincea – racconta Maddalena Botta – per poter salire con la mia carrozzina senza problemi sugli autobus di linea, ho potuto finalmente cantare vittoria e avere la “prova provata” che la costanza, la pazienza, la buona educazione ripagano sempre, e con gli interessi! Grazie anche alla civiltà di una giovane autista e alla solidarietà di tre giovani “forzuti”, tutti e tre immigrati…»

Disegno con un uomo che attraversa un ponte formato da due mani che si stringonoDopo avere ascoltato il telegiornale della sera – quotidiano bollettino di guerra ed elenco di disgrazie di ogni genere – mi sento in dovere di raccontare a quante più persone possibile la mia esperienza odierna, esempio di civiltà, tolleranza e, credo, invito alla solidarietà.
Ho 33 anni, sono disabile non autosufficiente, mi muovo con una sedia a motore, lavoro in Banca d’Italia dal 2009, vivo a Brescia in maniera indipendente dal 2011, cioè in una casa mia, distinta da quella dei miei genitori, assistita da una badante a tempo pieno.
Per farla breve, sono circa quattro anni pieni che gli abitanti di Brescia – almeno quelli del centro e delle zone immediatamente adiacenti – si sono abituati a vedermi andare in giro da sola, sia che si tratti di shopping, di commissioni burocratiche o di recarmi al lavoro, oppure di andare a un aperitivo o al cinema con gli amici. Cerco insomma, nelle mie possibilità, di avere una vita normale.

All’inizio della mia vita indipendente, lontana dalla famiglia d’origine, le cose non sono state affatto semplici. Ho avuto difficoltà in particolare con la casa e con i trasporti.
Per quanto riguarda il primo aspetto, voglio ringraziare in primis il SAV (Servizio Adattamento ambienti di Vita) e il CTVAI (Centro Territoriale per la Vita Indipendente), strutture nate per aiutare le persone con disabilità a costruirsi una propria vita indipendente (anche se temo che il secondo di questi enti non esista più, a causa del generalizzato taglio di fondi per fini sociali…); in secondo luogo, voglio ringraziare il mio datore di lavoro, la Banca d’Italia, per avere provveduto ad adattare un appartamento ad hoc, assecondando ogni mia esigenza connessa alla disabilità. Senza il SAV o senza la Banca d’Italia, non avrei di certo potuto vivere quattro anni di libertà e di vita autonoma, da adulta. Sarò eternamente grata.

Per quanto riguarda poi i trasporti, la questione è stata, ahimè, più complicata che non per l’alloggio. È stata necessaria una lotta molto più dura, costante, logorante e quotidiana, per vedere riconosciuto il mio diritto a prendere i mezzi pubblici, come qualsiasi altra persona non disabile. L’appartamento dove tuttora abito si trova infatti a Brescia, città dove lavoro, ma leggermente ad est rispetto al centro, zona dov’è ubicata invece la filiale della Banca d’Italia. Pertanto, ogni mattina, dal lunedì al venerdì, e ogni pomeriggio, a fine giornata lavorativa, devo prendere l’autobus di linea per gli spostamenti casa-lavoro e viceversa.
Non è mia intenzione lamentarmi dei disservizi, delle discriminazioni subite, né in questa sede né altrove. Ho detto all’inizio di questa lettera – e lo ribadisco – che voglio raccontare un fatto positivo, una buona notizia che dia speranza, per controbilanciare almeno in parte la valanga di input negativi che ci vengono costantemente proposti dagli organi d’informazione. E tuttavia, per amor di verità, ci terrei a riferire che la mia “campagna” per poter salire regolarmente sugli autobus di linea è stata una vera e propria battaglia in trincea, fatta di “lacrime e sangue”. Le prime volte alcuni autisti sbuffavano nel vedermi; altri, per manifestare la loro scocciatura, sbattevano a terra la rampa nella maniera più fragorosa possibile, in modo da creare un rumore assordante, soprattutto per me; con alcuni ho litigato, perché volevano rifiutarsi di farmi salire, ecc. ecc. Ma questa ormai è storia…

Oggi invece, 21 ottobre, ho potuto cantare vittoria: ho avuto cioè la “prova provata” che la costanza, la pazienza, la buona educazione ripagano sempre. E con gli interessi! Di seguito la narrazione dei fatti.
Mi trovavo infatti in Corso Magenta, alla fermata dell’autobus della linea 11, proprio all’inizio, vicino a un centro commerciale molto frequentato (chi è di Brescia avrà capito esattamente a quale zona della città sto facendo riferimento).
Ebbene, ero con una sedia a motore “di fortuna”, perché la mia “titolare”, per così dire, mi si era spaccata il giorno prima. Era abbastanza evidente che non ero proprio comoda, nella carrozzina. Con questa sedia a motore di scorta, infatti, non ho un adeguato sistema posturale e devo dunque supplire con mezzi “casalinghi”, quali dei cuscini del divano dietro la schiena. Ancora, ero con la batteria a terra, sempre perché questa carrozzina di scorta è, appunto, “di scorta” e non tiene più molto la carica; va bene giusto come tappabuchi per quando si rompe l’altra sedia, più recente.
Dopo pochissimi minuti di attesa arriva l’11, puntualissimo. Mi affretto ad affacciarmi alla porta dove c’è il conducente, per chiedergli se può aspettarmi e venire a prendermi alla fermata successiva. La prima fermata di Corso Magenta, quella in questione, non dispone infatti di un marciapiede ed è dunque parecchio più difficile utilizzare la rampa per salire sul mezzo, perché la pendenza che si viene a creare è molto elevata. Si rischia cioè di capottarsi con la carrozzina… Sapendolo, propongo all’autista di venire a ripescarmi alla fermata successivamente, dotata di marciapiede.
Per tutta risposta l’autista, una giovane donna sorridente, dai capelli di un bel rosso vivace, mi dice: «Ma no, figurati, tentiamo di salire qua, proviamo almeno! Mi infilo le scarpe e scendo ad aiutarti». Detto, fatto. La conducente apre la rampa manuale. E come previsto, la pendenza è notevole. Io e l’autista da sole non ce l’avremmo mai fatta, sia per la pendenza della rampa, sia perché la mia carrozzina era quasi a secco di batteria e perciò in salita spingeva poco e niente.
Nessun problema: non abbiamo nemmeno fatto in tempo a chiedere aiuto che tre giovani, tutti e tre immigrati, ci sono venuti in aiuto. In quattro e quattr’otto ero sul bus, in sicurezza, comoda e soddisfatta.
Per ringraziare i ragazzi – così gentili e soprattutto così solerti nel venirci incontro per aiutarci – ho offerto loro delle nocciole sfuse che porto con me abitualmente in borsa, come snack. Vorrei poter descrivere la loro faccia: un misto di stupore, gratitudine, e pura felicità! Che gioia! Non penso che la loro contentezza fosse dettata da malnutrizione, non avevano l’aria di essere persone che non mangiano da giorni, e poi una manciata di nocciole non credo risolverebbe i crampi allo stomaco, anzi. Piuttosto – ma questa è solo la mia teoria – credo siano rimasti piacevolmente stupiti dal mio gesto di amicizia, di semplicità, di condivisione. Chissà quante altre volte un italiano tratta questi giovani immigrati con la stessa familiarità con cui mi son sentita di trattarli io…

Ci ho pensato su parecchio e credo di sentirmi affine agli immigrati – o in genere alle persone emarginate o discriminate in qualsiasi maniera – perché io stessa, a causa della mia grave disabilità, ho provato e purtroppo continuo a provare sulla mia pelle cosa voglia dire essere esclusi, discriminati, essere “cittadini di serie B”. E forse questa empatia che descrivo è reciproca, nel senso che in generale, a livello statistico, sono sempre molto più pronti gli immigrati che non gli italiani a darmi una mano, nel bisogno. Certo, probabilmente giocano anche le culture di provenienza. Alcuni Paesi dell’Africa o dell’Asia forse hanno mantenuto un senso di comunità, un’idea di solidarietà e di bene comune che a noi occidentali sta un po’ sfuggendo di vista, scivolando tra le dita… Come giustificare altrimenti la parata di italiani, con tricolore al vento, in sostegno del pensionato che ha ucciso un ventiduenne albanese, sospettato di aver tentato di rubare in casa sua? Io ascolto notizie simili ai telegiornali, e ho paura. Vedo un Paese che sta deragliando sempre più verso l’intolleranza, il razzismo e anche l’egoismo. Mi auguro di sbagliare.

Ecco la mia bella storia di oggi. Ma in conclusione, voglio ringraziare: Brescia Mobilità e i suoi autisti (soprattutto quelli delle linee 3 e 11); quei tre ragazzi “forzuti” e tutti quegli altri immigrati di cui non ho fatto in tempo a conoscere il nome, che si sono sempre dimostrati molto pronti ad aiutarmi (in tedesco esiste un’unica parola che esprime questo concetto dell’“essere pronti ad aiutare”: hilfsbereit. Lo trovo molto bello e solidale); i miei genitori, che se non mi avessero lasciata libera di fare le mie scelte, di andare a vivere da sola, di “diventare adulta”, esperienze belle come quella raccontata forse non le avrei mai vissute. E forse a Brescia sarebbe ancora un’odissea prendere un bus in sedia a rotelle…
E da ultimo, naturalmente, grazie anche ai Lettori per la pazienza avuta nel seguirmi sino in fondo.

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