Nessuno deve sentirsi un’isola irraggiungibile

«Spero in un medico che mi ascolti – scrive Rosa Mauro, raccontando le sue negative esperienze presso due Associazioni – nella vittoria dell’umanità sulle definizioni che arrivano alla “ghettizzazione” di un malato nei confronti dell’altro. E spero che dopo la pubblicazione di questo pezzo qualcuno dica: «Venga da noi, ci occuperemo di lei, perché ci occupiamo di chiunque chieda il nostro aiuto, senza chiedere diagnosi o carte di identità». Lo spero per me, lo spero per altri: nessuno deve sentirsi un’isola irraggiungibile!

Donna di spalle davanti a una finestraCare Associazioni, oggi voglio parlare con voi. Sì, proprio con voi, che siete nate, soprattutto se siete di malati e disabili, per tutelare la sofferenza e il disagio.
La tutela è un’ottima cosa, desiderare che migliori la qualità della vita, trovare le cure migliori, tutelare per lavoro e svago, anche. Il problema è quando questo si limita solo ad alcuni, perché quegli alcuni abbiamo deciso di tutelarli, e gli altri no.
Giuro, io a questa vostra “politica del campanile” non avevo mai davvero creduto… Mi dicevo: «Ma ti pare che persone che vedono ogni giorno la sofferenza, che scelgono di alleviarla, se si trovano davanti a qualcuno che ne è colpito, ma non ha, come si dice, la “denominazione giusta”, non intervengono?». Sarebbe come se io, essendo un bagnino, non salvassi uno che sta per affogare solo perché lo sta facendo tre metri dopo il mio stabilimento! Non è logico, non è naturale, nemmeno umano, penso. Perfino in guerra quando il nemico viene ferito lo si cura, lo si aiuta…
Mi sono dovuta ricredere, però. Sono tre anni che porto avanti questo mio personale viaggio nel mondo dell’associazionismo, partendo dalla mia “terra ibrida”, in cui convivono problemi come la miastenia e la neurite, e una diagnosi contestata che mi sta portando via l’uso delle gambe. O meglio, più che una diagnosi contestata, una diagnosi che non c’è.

Ebbene, mi sono rivolta a voi. Anzi, per la precisione, a due Associazioni molto note, molto attive. Che hanno giornali, visibilità, e fama di tutelare gli interessi dei malati dal punto di vista non solo medico, ma soprattutto umano, con centri, psicologi, strutture. Ho chiesto e ottenuto da una gentile volontaria informazioni generiche, ma importanti, riguardo alle piscine romane e questo mi ha incoraggiata comunque ad andare avanti.
Ho provato a chiedere di più, a vedere se concretamente quell’Associazione poteva “adottarmi”. Questa Associazione – a Roma come altrove – ha strutture ospedaliere, dove fare diagnosi, ha centri dove fare attività fisica. Per me, però, niente fisioterapia, perché non ho quella diagnosi, niente residence estivo con cure speciali a prezzi umani; se lo voglio, devo pagare il doppio, perché la mia malattia non inizia con la lettera maiuscola. Eppure, la mia sofferenza non è finta, e i miei sintomi sono praticamente sovrapponibili a quelli della malattia in questione, neurite ottica compresa…
Cara Associazione, credi davvero che permettere anche a me di usufruire di quelle strutture sottrarrebbe chissà quali preziose risorse a chi, a questo punto e paradossalmente, ha avuto la buona sorte di avere la “diagnosi giusta”? Oppure credi che non possederla mi faccia meno soffrire e crei meno problemi alla mia vita quotidiana? Perché la tua umana comprensione non va al di là di una mera etichetta medica, e non vede l’essere umano al di là di essa?
Lo confesso, il coraggio di andare fisicamente nelle sedi di quell’Associazione mi è mancato, la loro ferma posizione telefonica mi ha scoraggiata.

Allora ho provato all’altra Associazione, anch’essa davvero nota per la sua attività in tutta Italia e non potevo crederci: il risultato è stato identico.
Stavolta mi sono recata in sede, sapete, magari era questione di mezzo comunicativo: dopotutto, il telefono è un mezzo freddo. E invece sono stata lasciata lì, a raccontare inutilmente a un’amministrativa “incastrata dai suoi capi” la mia odissea con un centro stranoto anche a loro, che ne hanno parlato nei propri organi d’informazione, e che mi aveva liquidata dopo una telefonata. Di un amministrativo, appunto…
Avrei voluto parlare dei problemi di privacy di un simile comportamento con il direttore sanitario della struttura che era presente, ma mi ha liquidata con un sorriso raggiante, dicendo che con il centro, situato praticamente a due passi da loro, non c’entravano nulla. Evidentemente, il fatto che qualcuno volesse parlare con lei, un medico, di un problema di etica professionale, le era fastidioso, visto che non ero “un loro soggetto da tutelare”.
La signora costretta a ricevermi, cui avevo rovinato la giornata, mi ha ascoltata in corridoio, in piedi, mettendo bene in evidenza in più di un passaggio che non avevano alcuna influenza sul suddetto centro, e che non essendo io “dei loro” non potevano aiutarmi.
Lo ammetto: ho avuto una crisi nervosa, legata alla stanchezza e alla tensione, i miei problemi relazionali di fronte alla chiusura dell’altro vengono sempre fuori. Ma sono cambiate le cose? Direi di no: la signora non mi ha offerto nemmeno un bicchiere di acqua, né di recarmi in un ufficio vuoto, eppure ce n’erano. Anzi, mi ha sgridata perché, a suo parere, le mie “urla” spaventavano i bambini che erano lì in terapia.
Ha ribadito che non ero “dei loro”, che tornassi dopo una diagnosi, quest’ultima da ottenere chiedendo aiuto a qualcun altro. Ha anche detto che collaborano con questo “qualcun altro”… ovvero, in pratica, per farmi ascoltare, dovevo andare “con la raccomandazione”, perché la mia sola presenza, la mia storia e il mio bisogno di aiuto non bastavano. Solo dopo la diagnosi, le porte chiuse di qualcuno, presumibilmente un’Associazione, si sarebbero aperte…

Colpa mia, dunque, Signore Associazioni. Sono io a “non permettermi una diagnosi”, e non serve spiegarvi che l’unica cosa che non posso permettermi è quindici giorni fuori casa in ricovero per via di mio figlio autistico. Non serve cercare di spiegarvi che sarei disposta a farmi punzecchiare da chiunque, purché lo facesse in day hospital e potessi tornare a casa a gestire Giovanni.
Allora mi chiedo: ma pensate che la mia sedia a rotelle sia finta? O che la mia mancanza di diagnosi mi renda invisibile?
Non ho alcuna voglia di dire il nome delle due Associazioni, non è questo il mio intento, voglio solo che si cominci a riflettere e ad aprire questi dannati compartimenti stagni.
In entrambe le occasioni non hanno chiesto il mio nome o cosa facevo nella vita. Da parte mia, non mi sono presentata, ho ricordato solo i miei problemi individuali e di famiglia, ho parlato di mio figlio e dell’impossibilità di affrontare una lunga degenza per verificare una diagnosi o smentirla. Ma non sono stata ascoltata, perché non ho cominciato la mia chiacchierata con la frase di rito: «Sono una dei vostri».
Ma dovremmo essere tutti “dei vostri”! Come pretendere di essere trattati alla pari degli altri, di non subire discriminazioni, se siamo noi i primi a farne?

Farò ancora una prova, al rinomato centro, andandoci con la mia faccia, la mia storia, la mia vita imperfetta e ancora da definire. Spero in un risultato diverso, in un medico che mi ascolti, nella vittoria dell’umanità sulle definizioni che arrivano alla “ghettizzazione” di un malato nei confronti dell’altro.
E spero che dopo la pubblicazione di questo pezzo, qualcosa cambi, qualcuno parli, mi dica: «Venga da noi, ci occuperemo di lei, perché ci occupiamo di chiunque chieda il nostro aiuto, senza chiedere diagnosi o carte di identità».
Lo spero per me, lo spero per altri: nessuno deve sentirsi un’isola irraggiungibile!

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