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Franco, che amava la verità

Franco Bomprezzi

Franco Bomprezzi (1° agosto 1952-18 dicembre 2014), che fu direttore responsabile di «Superando.it» dall’avvio delle pubblicazioni fino al giorno della sua scomparsa

Scrivo con un certo peso sulle spalle. Meglio sulle spalle che sullo stomaco, ma sempre fardello rimane. È un fardello ingombrante, di quelli che sai che c’è dentro qualcosa di buono e ti rinvigorisce l’idea di condurre a lieto fine un bene prezioso, ma la schiena comunque si piega. Il respiro si fa affannoso. La penna arranca. La voce tremula nel dettare al computer e il mouse incerto, spaurito, si muove sul monitor alla ricerca delle parole corrette da sostituire con gli esatti pensieri.
Parlare di Franco Bomprezzi non è mai facile. Non lo era prima, quando potevo rompergli le scatole e chiedergli spiegazioni, perché non mi andava di disturbarlo, e tanto meno lo è adesso, perché spiegazioni non posso più chiedergli.
Un proverbio dice che «quando nascono sono tutti belli, quando si sposano ricchi e quando muoiono bravi». Io non so se Franco fosse stato bello alla nascita o ricco al matrimonio, ma di sicuro è morto bravo. Lo è anche vissuto, a parte che era interista è questo gliel’ho sempre perdonato. Stiano come stiano le cose, il mio maestro è stato fatto “santo subito”. Bravo. Anzi, giusto! Se lo meritava.
Quel che mi ha stupito, e che non si meritava, è che immediatamente sia aumentato il numero dei credenti, di proseliti, degli amici a tutti i costi e di quelli che hanno trovato vanto nell’aver visto un tizio che aveva sentito da un altro che aveva letto di un amico di un amico di Franco che Franco era bravo. E santo, naturalmente. L’abilità di Franco, così come la sua umanità, era sotto gli occhi e alla portata di tutti. La sua amicizia pure. Ma l’amicizia postuma o vagheggiata sa di allucinazione. E l’allucinazione si addice ai fantasmi, non ai santi.

Franco, da giornalista vero, amava la verità. Nessun dubbio che ricercasse le fonti e la loro autenticità. Quanto mi piacerebbe potesse farlo da dove si trova ora riguardo alla schiera di assoluti conoscenti e affannati estimatori fiorita dopo quel 18 dicembre 2014. Ne tirerebbe fuori un’inchiesta. Un dossier numeri alla mano e sorriso sulla bocca. Arguto, leggero, pungente.
Io non ero amico di Franco. O almeno non lo ero come molti intendono l’amicizia. Non uscivamo insieme, e ci è rimasta una pizza in arretrato. Non parlavamo di donne. E non ci scambiavamo i vestiti. Qualche volta parlavamo di politica e ci sfottevamo sul calcio. Spesso sostenevamo le stesse cause e sovente abbiamo lavorato assieme. Ai tempi di «Superabile» [la testata «SuperAbile INAIL», N.d.R.] mi disse che mi considerava “una sua firma” e mi trasmise molti suggerimenti, più o meno palesi, per migliorare la mia scrittura. Per questo era, ed è, il mio maestro. E questo, sia chiaro, non lo dico ora, ma glielo dicevo in faccia. E lui era costretto ad accettarlo, pur con la sua irrinunciabile modestia.
Qualche volta mi ha tirato qualche pacco. Per un po’ di tempo ci siamo persi e poi ci siamo ritrovati così, come capita alle persone che lavorano nello stesso campo. E che si stimano. Sì, perché lui mi stimava, altrimenti non sarei qui, in questo spazio, a scrivere queste righe. Medaglia sul petto, esplosione dell’ego, strumentale elogio della nostra amicizia e allusione a Sordi con quel presuntuoso «Perché io so’ io e voi non siete un…» del Marchese del Grillo.
Certo che no. È che a me gli amici piace difenderli. E se io e Franco non eravamo amici come certi intendono che si debba essere, pazienza, io lo difendo lo stesso. Dall’ipocrisia e dal travisamento.

Franco era, ed è, unico, inimitabile. Non ci sarà mai un altro Picasso, un De Sica, uno Shakespeare o un Corrado (lo “scognomato”), mettiamoci l’anima in pace. Non ci sarà più un altro Franco Bomprezzi ed è inutile ricercarlo nelle cose da fare. Se la sua lezione ci è servita, quello che ancora deve fare il mondo della disabilità – e mi dispiace dover parlare di mondo della disabilità come fosse una cosa a parte rispetto alla comunità in generale – ognuno di noi non deve farlo per lui o per l’amicizia, vera o presunta, con lui, ma deve farlo perché il percorso che egli ha pesantemente iniziato a tracciare non venga occluso dalla prima alluvione di perbenismo.
Non ha senso dire che un progetto vada portato avanti “per Franco”, a meno che non lo si sia iniziato assieme. Le idee si concretizzano sulla base della scuola che abbiamo seguito. E Franco è stata la nostra scuola, come lo sarà per le generazioni future. Ma Franco non è un’immagine. Una bandiera da strapparci di mano come al gioco che si faceva da ragazzi. Franco è un emblema. E i simboli rappresentano un ideale che va perseguito, non una figura da applicare qua e là quasi fosse un bollino di qualità.
La qualità dobbiamo darla noi. Noi abbiamo il dovere di fare ciò che lui ci ha insegnato a fare, se veramente vogliamo considerarlo per quello che è, cioè una pietra miliare nella storia della disabilità del nostro Paese. È sbagliato fare le cose “per lui”. Vanno fatte per la società, per chi ha bisogno, questo è quello che lui ci ha insegnato. Non voglio più sentir dire: «Questo dobbiamo farlo per Franco…». Questo dobbiamo farlo per tutti.
Io voglio vedere presto una via di Milano a lui intitolata. Voglio che la gente legga il suo nome sul navigatore satellitare o sulla targa all’inizio della strada o all’angolo di una piazza. Voglio che si rifletta sul suo nome. Che resti traccia di lui per sempre a Milano, la città dove maggiormente ha lasciato il segno. Fuori, fra la gente. Dove gli piaceva stare e per cui ha vissuto. Una strada per tutti, dove circolino le idee e la voglia di fare e l’ipocrisia non abbiano spazio.

Testo già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “Nel nome di Franco Bomprezzi”, e qui ripreso con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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