Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi…

Ovvero “storia di un approccio semiserio a una ‘diversa’ seduzione”, nuovo contributo con il quale Gianni Minasso – sempre all’insegna della più caustica ironia – arricchisce ulteriormente la rubrica “A 32 denti (Sorridere è lecito, approvare è cortesia)”, fatta di incursioni nel grottesco e nella comicità più o meno involontaria che come tutte le altre faccende umane, riguarda anche il mondo della disabilità. Ma questa volta con qualcosa in più, se non altro una coautrice…

Braccio con il tatuaggio "Love" e al posto della O una carrozzina su un cuoreC’è qualcosa di diverso e anche qualcosa in più (una coautrice), rispetto alle tradizionali “puntate” della rubrica di Gianni Minasso denominata A 32 denti (Sorridere è lecito, approvare è cortesia) – di cui a fianco elenchiamo i vari contributi dedicata alla comicità più o meno involontaria di cui, come tutte le altre faccende umane, è impregnato anche il mondo della disabilità. E per farlo capire meglio, cediamo direttamente la parola allo stesso Minasso, che ringraziamo anche questa volta per questa sua intelligente “scorribanda” nella cultura della disabilità, con cui arricchisce ulteriormente la nostra testata. (S.B.)

Trattare il periglioso argomento “Handicap & amore” (ma leggasi anche …& seduzione, …& sesso &ccetera), già sviscerato da legioni di dotti, medici e sapienti, è come camminare nella gabbia dei leoni anoressici con una fiorentina a mo’ di perizoma. Ma tant’è, amiamo il rischio, e allora proseguiamo. Questa volta, tuttavia, per evitare di scoprire anche noi l’acqua calda, abbiamo deciso di scegliere una tecnica particolare, una specie di (absit iniuria verbis) reality, che forse dovrebbe fornirci gli utensili più adatti per tentar di sbrogliare la scabrosa matassa. È stato però necessario un robusto supplemento di intelligenza, perizia e sensibilità, fornitomi gentilmente da Simona Guida, che qui ringrazio dal profondo.
In questa frugale operetta composta a quattro mani, una lei normodotata e un lui disabile disputano un incontro-scontro a colpi di fioretto, avanzando, indietreggiando e combattendo una battaglia vecchia di secoli, quella della seduzione, questa volta complicata da una variabile in più: l’handicap. (G.M.)

Non è una notte buia e neppure tempestosa. Anzi, è un tiepido pomeriggio autunnale.
La telecamera inquadra le vetrine di un mediocre bar di periferia. Entriamo. In sottofondo rumore di tazzine risciacquate e mormorio di radi clienti. Un disabile in carrozzina, né bello né brutto, sui cinquanta inoltrati, è infilato sotto un tavolino vicino al bancone. È da solo e osserva il panorama intorno a lui.
Ad un tratto la quiete di questo palcoscenico viene turbata da un brusco movimento: si spalanca la porta ed entra una donna dai capelli d’oro e dal fisico minuto.
Ma io sono soltanto il Prologo e quindi, esaurito il mio compito, esco di scena. Avanti Narratore e Protagonisti, tocca a voi.

Arriviamo. Eccoci qui.
Sotto gli occhi attenti degli avventori, la gentildonna si appropinqua al bancone e ordina un caffè. Cominciamo coi pensieri e poi via ai dialoghi.

Disabile: (Cazzarola, e da dove spunta ‘sto cherubino?).

La damigella comincia a sorseggiare la sua tazzina, voltandosi verso l’interno del locale. All’improvviso, rilassandosi al tepore della bevanda, incontra gli occhi del messere ruotato.

Normodotata: (Che bello sguardo).

E resta quieta, mentre l’uomo entra nel consueto stato di frenesia “pre-venatoria”.

Disabile: (Ehilà, la piccola mi ha agganciato! Calma ciccio, ti prego, stai calmo. Cerca di non fare sempre la figura dell’allupato a rotelle. Anche se ti fidanzeresti con la Merkel, devi dissimulare quella che gli educatori più istruiti definiscono “autoreferenzialità” e attirarla col tipico sex appeal dell’handicap). Scusi… Buonasera. Cerca qualcuno? Posso esserle utile?
Normodotata: Buonasera. Sto aspettando una collega, ma mi ha appena telefonato annunciandomi che è in ritardo. La ringrazio. …È buono questo caffè, anche il suo?
Disabile: Direi di sì, anche se il barista non mi ha accontentato.
Normodotata: Cioè?
Disabile: Ne avevo chiesto uno macchiato con latte tiepido di capra boliviana vedova risposata in seconde nozze con un caprone francese (evvai, sono un grande: sta sorridendo).
Normodotata: (Ecco un uomo colorato! Con tutti gli esemplari grigi che pervadono ogni dove, ho incontrato una persona che è un arcobaleno. Non resisto, continuo a parlare con lui). Lei oggi è di buonumore e, direi… sa pure mettere di buonumore. La ringrazio: mi fa sorridere, e di gusto!

L’incontro è avvenuto solo da pochi istanti, ma le suppellettili e la fauna del bar sono già scomparsi all’orizzonte, risucchiati dal vortice causato dalla possente alchimia scoccata fra i due.

Disabile: (Gulp). Mi perdoni se forse, entrando subito in argomento, le risulterò un po’ brutale, ma come avrà già notato, io sono una persona disabile e perciò, confortato dai filosofi della retorica, la informo che «l’offerta di me al cosiddetto “Altro” è influenzata dal peso dell’handicap col quale mi autopercepisco» e quindi non vorrei che ciò costituisse un ostacolo fra noi.
Normodotata: (Ma perché adesso mi dice queste cose? Che c’entra? Che cosa m’importa se lui è disabile o non disabile? A momenti manco me n’ero accorta, guarda un po’…). Sì, vedo che lei non può camminare, ma mi scusi, sarò anch’io un po’ brutale, in realtà non ho neanche fatto in tempo a pensare alla sua carrozzina quando mi sono messa a parlare con lei. Raramente resisto alle persone che non perdono tempo a condividere garbatamente il loro buonumore! Piacere, Silvia.

E, detto ciò, si siede al tavolino.

Disabile: Piacere, Giacomo (e come hai già capito, mia cara vecchia volpe, ho un maledetto problema di identità con l’handicap). Poi la prego, smettiamo ambedue di essere brutali e… «Ricalcolo!», come dice il tomtom, riprendiamo il filo. In attesa della sua collega, prometto di fare il possibile per dimenticare il ferrovecchio che ho incollato al sedere.
Silvia: Sta aspettando qualcuno anche lei? Oh, scusi…

Portachiavi con un disabile sopra a un cuoricinoUn po’ imbarazzata dal gesto appena compiuto al di là del suo controllo cosciente.

Silvia: …mi sono accomodata senza chiederle il permesso. Mi è venuto spontaneo (come al solito, quando annuso una certa aria, mi dimentico alcune regole di gestione dello spazio e forse sono stata invadente, ma che importa: il mio fiuto dice che questa persona me lo consente, mi consente, benché sia un estraneo, di liberare la mia irresistibile voglia di umanità).
Giacomo: S’immagini, mi fa piacere averla così vicino (e poi potrei passare pure per ganzo: figurarsi, un quattroruote come me insieme alla Fata Turchina!). Sì, sto aspettando qualcuno: me stesso! (la prima regola del playboy, anche handicappato, è quella di fare il misterioso: per le portatrici di reggiseno conta poco ciò che sei, però smaniano nell’immaginare ciò che potresti essere).
Silvia: Ed è da molto che sta aspettando?!

Mentre pronuncia queste parole, i suoi occhi sorridono con dolcezza ed empatia, comunicando a Giacomo che “aspettare se stessi” rappresenta qualcosa che Silvia ha ben presente, una condizione esistenziale che può essere periodica o più prolungata, a seconda dei casi.

Giacomo: (Cavolo, ci sono ricascato). Cioè no. Abbia pazienza, intendevo… (forza, su: diglielo!). Insomma non è che io sia in cerca di risposte ai soliti quesiti esistenziali del «Chi siamo-Da dove veniamo-Dove andiamo» (ma soprattutto: dove parcheggiamo?). Molto più prosaicamente, se ne sarà già accorta, non riesco proprio a non considerarmi disabile. Continuo, con pervicacia, ad utilizzare gli schemini degli abili, in virtù dei quali resto inesorabilmente un handicappato. La prego, mi aiuti lei (e se adesso mi chiama “diversamente abile”, giuro che prima la strangolo e poi mi arruolo nell’Isis).
Silvia: Aiutarla?…

E poi, un po’ disorientata, prosegue.

Silvia: Io vedo la sua carrozzina, sì, è davanti a me. Immagino che le aumenti la libertà di movimento. Di lei, però, non so nulla, mi perdoni, io non la conosco, naturalmente.

Lo sguardo è tra il dolce, l’imbarazzato e il tranquillo, come di chi, in fondo, si sente capito.

Silvia: Ecco, io di lei non so nulla… Beh, so che, come me, se fiuta che può, lascia aperto il passaggio. Anche se io cerco sempre, per come riesco, di procedere cauta, per non essere fraintesa o presa in giro.

A questo punto Giacomo scruta nervosamente il suo orologio da polso.

Giacomo: (E adesso mancano solo il Baldi e l’Alotta!). Sì, ha ragione, la carrozzina è preziosa perché mi porta quasi dove voglio, ma proprio non ce la faccio a rimuoverla dalla mente. Mi perdoni lei, Silvia, però non vorrei tediarla mentre aspetto a lungo me stesso. Quindi la lascio in santa pace ad attendere la sua collega.
Silvia: Ma…
Giacomo: Le chiedo solo una cosa, anche per aiutarmi ad aumentare un’autostima lillipuziana: ci possiamo rivedere? Mi dà il suo numero di cellulare? (Mizzica, mo’ provo la stessa vertigine di quando il badante mi caccia sotto al naso il certificato di mutua).
Silvia: Le posso dare invece un appuntamento qui, la prossima settimana, stessa spiaggia stesso mare, per un altro caffè?
Giacomo: (Speravo di vincere, ero sicuro di perdere e invece ho pareggiato). Va bene. Dunque ci ritroveremo qui, fra sette giorni, a questa stessa ora. Arrivederci Silvia. Ciao!

La settimana seguente Silvia giunge al caffè prima di Giacomo, si siede al medesimo posto e attende il suo arrivo, non proprio sicura che questo avverrà. Ha con sé un pacchetto, che posa sul tavolino. Dopo qualche minuto le si avvicina il barista.

Barista: Lei è Silvia?

E poi, senza aspettare la risposta, le porge una busta.
Mentre l’uomo si allontana, la biondina lacera l’involucro di carta, estrae il biglietto di Giacomo, lo distende e lo legge avidamente.

«Cara Silvia, me ne dolgo con tutto il cuore, ma non ce l’ho fatta ad essere lì con te. In questi giorni è riemerso con prepotenza, in me, l’affaire handicap. Ti sono grato per avere amabilmente tentato di ignorare la mia carrozzina, magari eri anche sincera, il problema è che non sono mai riuscito, non riesco e non riuscirò mai ad essere me stesso. Io “sono” la mia malattia. Punto e basta. Di conseguenza non credo di poterti dare quello che forse cerchi. Continua la tua vita normale e dimenticami, sarà meglio per tutti e due. Mi sento inutile come le previsioni meteo di un mese fa, tanto più che adesso, davanti a me, si spalanca l’inferno dei centri diurni, dove legioni di operatori scalpitano per farmi risolvere il tabellone delle parole crociate e somministrarmi il tè con la brioche. Vorrei rinchiudermi nell’unico luogo non reperibile su Google Maps e… tirare l’acqua! Con affetto, addio».

Scusate gente, ma dopo il Prologo e il Narratore sopraggiungo io, l’Epilogo, con l’incarico di declamarvi qualche parolina edificante. Ebbene, come in tante altre occasioni, Madama Disabilità è la vincitrice, perché ha sconfitto la gioia e il futuro, distruggendo la fragile armatura culturale costruita dall’uomo. Mentre i due Protagonisti raccolgono i cocci, saprà il pubblico imparare e farne tesoro?
Le luci si abbassano e sulla scena ritorna il buio.

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