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La colpa è sempre del cliente (con disabilità)!

Disegno di Dino Aloi per «DM», giornale della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare)

Disegno di Dino Aloi, realizzato in esclusiva per «DM», giornale della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare). Per gentile concessione

Genova, un paio di settimane fa, ristorante fra i caruggi [le tipiche vie di Genova, N.d.R.], mio padre: «Scusi, ma della focaccia genovese si potrebbe avere?». Risposta del gestore: «Al mattino non la facciamo perché non si digerisce». Erano circa le 14 e questo aiuta a capire quale bizzarra concezione dell’ospitalità ci fosse in quel luogo. Tengono all’apparato digerente dei clienti. Assai meno all’accessibilità sulle ruote e adesso racconterò perché.

Muoversi fra i caruggi, quelli frequentati e cantati da De André, dove una volta c’erano le donnine e adesso degli extracomunitari che mi stanno simpatici perché sono molto gentili nei miei confronti, non è semplice con il navigatore che ti avverte che si tratta di una zona vietata al traffico. In più il mezzo con cui mi sposto è un furgone, che negli spazi angusti sta come un elefante in un poggiolo. Comunque arrivo, in qualche modo arrivo. Il locale è un ristorante che mi è stato consigliato da un amico e con il cui gestore ho parlato la settimana prima per sincerarmi dell’effettiva accessibilità.
Il proprietario mi ha detto che c’è un gradino di cinque centimetri all’entrata e che spesso ha ospitato persone che si muovono in carrozzina. Anche comitive. Mi sono fidato.
Molti affermano che i propri locali siano praticabili a chi si muove sulle ruote, mi è successo anche l’altro giorno a Milano, e poi quando chiedi se c’è un gradino all’entrata, cascano dalle nuvole. Forte della mia esperienza, perciò, ho ribadito più volte che il gradino all’entrata poteva essere un problema e più volte mi è stato risposto che il problema non c’era. Fidarsi della concezione dell’accessibilità dei titolari di spazi pubblici è bene, diffidare è d’obbligo, e dopo questa esperienza ne sono ancora più convinto.

Arrivo e il gradino di cinque centimetri all’entrata non c’è. Ce n’è uno alto il doppio. Va bene, sono lì con i miei e con degli amici e quindi è facile prendere dal furgone lo scivolo portatile che ci portiamo sempre appresso per piazzarlo davanti allo scalino. Con un certo scetticismo, lo ammetto. Il motivo è semplice: il marciapiede davanti all’entrata è strettissimo.
Alla prova dei fatti immediatamente lo scetticismo si muta in convinzione. Piazzato lo scivolo, infatti, l’attrezzo occupa tutto il marciapiede e quindi per salirci e ascendere al locale devo superare anche il gradino del marciapiede. Il tutto partendo dal livello della strada che, per complicare ulteriormente l’arrampicata, non è asfaltato, ma di lastricato. Questo vuol dire che è fatto di mattonelle non allineate, in un avvallamento fra le quali regolarmente finisco affossato. Proprio davanti l’entrata del locale. Entrare è un’avventura: devo uscire da un buco per superare un gradino inforcando con precisione lo scivolo, pena una violenta caduta di lato. Una prova acrobatica. E una volta entrato come sarei uscito? All’uscita tutto sarebbe stato più pericoloso perché avrei rischiato di cadere con il corpo in avanti facendomi male o quanto meno ritrovandomi poi tutto dinoccolato sulla carrozzina.
Mentre considero tutto questo, il titolare arriva con dei libri che non capisco dove voglia mettere e che, penso, dovrebbero servire come spessore da posare non so dove per agevolare la salita. E intanto tentano di spingermi su. Io con la mia carrozzina, che insieme pesiamo più di 150 chili e non offriamo molti appigli oltre alle mie manigliette dell’amore.

Non so come, ma a quel punto mi è venuto in mente il mio maestro Franco Bomprezzi. Lui a quelle condizioni non sarebbe mai entrato. Avrebbe preteso l’accessibilità del locale e basta. Senza se e senza ma, soleva dire. Così, un bel po’ infuriato, ho detto al gestore che non era quello il modo di consentire l’accessibilità a un locale pubblico e sono tornato sul furgone.
Non avendo alternative, abbiamo infine pranzato lì sopra con quello che il titolare ci ha servito. Un buon servizio, ma senza mai aver ricevuto delle scuse per il disservizio.

Sin qui è cronaca di una storia come tante accadono quotidianamente e tristemente. Il Comune di Genova ha adottato solo recentissimamente un Piano di Eliminazione delle Barriere Architettoniche (PEBA). Per dire, a Milano un PEBA esiste da qualche anno e infatti la città si sta muovendo nella direzione della fruizione per tutti, anche se moltissime sono le cose da fare e anche se, nonostante una chiara disposizione che obbliga gli esercenti a dotarsi di sistemi per l’accesso delle persone che si muovono in carrozzina, sono ancora moltissimi i negozi che non sono dotati nemmeno di una rampa removibile.
L’aspetto mortificante di tutto questo è che avrei dovuto guardare meglio il sito del ristorante, che non è propriamente accessibile. Se fossi stato più attento e non mi fossi fidato di ciò che mi era stato detto, avrei notato le foto dell’entrata e avrei compreso le difficoltà ad accedere al locale. E avrei visto che tra i servizi offerti c’era scritto “accesso ai disabili”. È sempre colpa del cliente con disabilità che non si informa mai abbastanza. Si sa, no?

Testo già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “La colpa è sempre del cliente”, e qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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