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Lontano dalle narrazioni estreme

Edward Hopper, "Morning Sun", 1952

Edward Hopper, “Morning Sun”, 1952

«Ce la posso fare!», «ce la DEVO fare!», «certo che ce la faccio!»: frasi ripetute come un mantra per anni e anni, scudi contro la paura del futuro, della non accettazione, formule magiche per trovare e mostrare coraggio nel vivere la disabilità. Maschere rassicuranti da indossare e ostentare.
Poi arriva un giorno in cui, guardandoti allo specchio, ti chiedi: «E se non avessi voglia di farcela?», voglio dire non sempre, ma qualche volta. Quando senti che quel coraggio portato all’estremo con gli anni ha lasciato spazio alla consapevolezza di voler essere umana, limitata, debole. Non sempre, sia chiaro, ma quando lo desideri, quando ne hai bisogno. Una ricerca liberatoria di “finitezza” come antidoto a un coraggio divenuto pesante.

Queste e altre riflessioni suscitate dalla lettura di un testo pubblicato nel blog AnimALiena (Vivere in un corpo malato – Riflessioni sull’abilismo, 4 settembre 2016) mostrano le insidie del «performare la realtà», come dice l’Autrice, perché con un corpo malato «sei obbligata a funzionare, anche se il corpo – e, di conseguenza, la mente – si rifiuta di collaborare. Devi performare la normalità: se puoi, e finché puoi, nascondi la tua condizione. Il che si rivela, al tempo stesso, un bene ed un male: perché se da un lato ti evita pietismi e sguardi imbarazzati, dall’altro fa sì che le persone abbiano un certo tipo di aspettative da parte tua».
Aspettative legate a quel coraggio, a quel mantra del “ce la faccio!”, che alla fine si trasforma in una trappola, nel momento in cui c’è bisogno di riappropriarsi dei propri limiti, di mostrarli per farsi accettare da chi ci circonda anche con le nostre debolezze. La sensazione rassicurante di “potenza nonostante la disabilità” lascia spazio a una nuova dimensione, in cui fare i conti con l’impossibilità, il limite, il dolore. Occorre poi dare tempo a chi ci sta di fronte per rielaborare questo passaggio, affrontare la paura, ristabilire nuovi linguaggi, fatti anche di silenzi.

Spesso siamo noi persone con disabilità le prime a negarci questa libertà, per timore di non essere accettate e accolte, per non appesantire chi ci sta accanto, per la difficoltà nel raccontare ciò che abbiamo dentro. È molto più semplice, a volte, “performare la normalità”.
In una realtà circostante che propone due narrazioni estreme e antitetiche della disabilità – quella straziante dei “casi umani” e quella superperformante del “disabile-eroe” – vivere la propria condizione di persona con disabilità in modo equilibrato, cercando una propria dimensione personale e sociale, non è semplice, poiché i due poli opposti esercitano forze di attrazione piuttosto forti. Il rischio di sbilanciarsi da una parte o dall’altra è costante.
Negli ultimi anni, inoltre, il mondo dei social network ha amplificato oltremodo questa scissione legata al racconto della disabilità, dando uguale ed enorme spazio a storie strazianti, cosiddette “acchiappa like”, ma anche a storie incredibili di “disabili super eroi”, in grado di fare cose che i cosiddetti “normodotati” non sono in grado di fare. Si va dal «se hai un cuore condividi», legato a storie di malattie, bambini con grandi occhi imploranti, fino all’esaltazione di mirabolanti imprese, in cui la disabilità viene superata andando oltre, ostentando superiorità, rimuovendola. In entrambi i casi la si racconta senza davvero approfondirla, restando in superficie, suscitando magari stupore o compatimento, ma il più delle volte niente più.

Vivere al di fuori di quei due estremi, lontano dalla narrazione forzata della disabilità, significa invece potersi permettere di trovare la propria dimensione personale e sociale. Significa poter raccontare la propria vita fatta anche di disabilità, attraverso sfumature fatte di coraggio e stanchezza, vittorie e sconfitte, incertezze e ripartenze. Perché le nostre esistenze non hanno bisogno di narrazioni estremizzate, sono già abbastanza ricche e sfaccettate da poter essere vissute e condivise così come sono, senza ulteriore enfasi dettata dal bisogno di compiacimento o rimozione.
Ma ci vuole coraggio ad abbandonare quella maschera, a non ripetere e ripetersi il mantra del “ce la faccio” ad ogni costo, per allontanare la paura e cercare conferme. Occorre conquistare il coraggio di essere accettati e accettate con quelle sfaccettature, coi giorni di forza ma anche quelli di dolore, quelli in cui la consapevolezza dei limiti si fa pressante e intollerabile. Prima di tutto questo coraggio dobbiamo raggiungerlo noi, poi condividerlo con chi ci sta accanto.

Componente del Coordinamento del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare). La presente riflessione è già apparsa nel sito dello stesso Gruppo Donne UILDM, con il titolo “Il coraggio di non farcela” e viene qui ripresa per gentile concessione, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, così come la stessa immagine usata a corredo in quella sede.

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