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Con tanti interrogativi (più che mai aperti)

Mina e Piergiorgio Welby

Una bella immagine di Piergiorgio Welby, insieme alla moglie Mina

Era il 20 dicembre del 2006, esattamente dieci anni oggi, quando cessava la vita di Piergiorgio Welby, che solo qualche mese prima aveva indirizzato all’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano una lettera aperta di grande risonanza, nella quale aveva chiesto di potere ottenere l’eutanasia, per l’aggravamento delle condizioni di salute causato da una grave forma di distrofia muscolare, una patologia che ormai non gli permetteva alcun movimento e che ne aveva compromesso definitivamente il precario equilibrio fisico.
Immobile, alimentato dal sondino gastrico, attaccato al ventilatore polmonare in una condizione artificiale che per Welby non poteva essere chiamata Vita, in quella lettera ricordava che «noi tutti probabilmente dobbiamo continuamente imparare che morire è anche un processo di apprendimento e non è solo il cadere in uno stato di incoscienza».
Welby, è giusto ricordarlo, è stato anche altro e soprattutto un intellettuale, un poeta che ha riflettuto e scritto di vita, di morte, esplorando vari settori della comunicazione, come le arti grafiche, pittoriche e la fotografia. Tutte attività artistiche raccolte per la prima volta nella recente mostra intitolata IrriducibilMente, sulla quale ci eravamo ampiamente soffermati qualche mese fa.
Nel tentativo di ricordarne degnamente la vicenda, abbiamo scelto di riprendere una serie di illuminanti riflessioni già da noi pubblicate all’inizio del 2007, a firma di Salvatore “Tillo” Nocera, allora vicepresidente nazionale della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), oggi presidente nazionale del Comitato dei Garanti di quella stessa Federazione.
Pur a dieci anni dalla scomparsa di Welby, l’attualità delle parole di Nocera (e i ritardi istituzionali su queste materie), ci sembra quanto mai stringente. (Stefano Borgato)

La drammatica vicenda umana di Piergiorgio Welby ha profondamente scosso tanta gente sensibile, lasciando nel loro isolamento di mancanza di humanitas i cosiddetti “soloni dei codici civili e canonici”.
Io mi sento fortemente interpellato dalla vita di sofferenza di Welby e dal suo desiderio, finalmente esaudito, di porvi fine, per tre motivi: sono una persona con disabilità anche se di gran lunga meno grave – sono un credente cattolico, sono uno che studia e pratica il diritto.
Di fronte agli illustri teologi e giuristi che si sono confrontati a favore o contro le posizioni di Welby, io umilmente confesso tutti gli interrogativi che si agitano in me, impedendomi di dare un giudizio chiaro e sicuro sui problemi sollevati dalla sua vicenda umana, che invece mi sono sforzato di comprendere e condividere.

Le leggi
Gli interrogativi giuridici sono, per me, i meno complessi. Infatti, l’articolo 32 della Costituzione è chiarissimo nell’enunciare il principio che nessuno può essere sottoposto a trattamenti sanitari contro la sua volontà.
Se Welby fosse stato in grado fisicamente di staccare la spina, lo avrebbe fatto da solo, al pari di quanti liberamente decidono di abbandonare la vita divenuta per loro un peso insopportabile. Però egli fisicamente non poteva. E qui, giuridicamente, i problemi si pongono per il medico che ha reso possibile l’attuarsi della sua volontà.
I giuristi si scontreranno, come già sta avvenendo, sui principi di bioetica e sulle norme penali da applicargli, se le norme sull’omicidio del consenziente – neppure con le attenuanti – se i princìpi sulla sospensione dell’accanimento terapeutico o se gli orientamenti in materia di eutanasia “attiva” (cioè morte provocata dal medico) o “passiva” (cioè morte naturale non impedita dal medico col ricorso a farmaci o a mezzi tecnologici).
Mancando comunque in Italia una norma espressa sull’eutanasia, la discussione sempre più si restringerà sulle altre due ipotesi e soprattutto sull’applicazione o meno della norma dell’articolo 579 del Codice Penale relativo all’omicidio del consenziente.
In ogni caso, se sul diritto al rifiuto dell’accanimento terapeutico fortunatamente tutti sembrano essere d’accordo, il problema dibattuto è circa il concetto giuridico di accanimento terapeutico, specie in presenza delle nuove terapie e tecnologie mediche.
Personalmente sono contrario a una norma penale che autorizzi un soggetto terzo a decidere a quali condizioni una persona non in grado di esprimere più una volontà libera e certa, possa essere condotta dolcemente a morire. Se però la persona è in grado di intendere e volere, come è stato Welby, ritengo che un ordinamento giuridico debba consentirle di raggiungere la morte che, a suo avviso, la libera da un’insopportabile sofferenza, senza nuocere ad alcuno; a meno che non si abbia della vita umana la visione “sovietica”, secondo la quale, essendo ogni cittadino “un bene dello Stato”, il suo suicidio danneggia quest’ultimo.
Anche il cosiddetto “testamento biologico”, cioè la volontà espressa liberamente di voler morire qualora si dovesse verificare uno stato di salute che non consenta di manifestare un libero intendimento al momento di una grave malattia, già ipotizzata nelle “ultime volontà” espresse dall’interessato, mi sembra debba essere riconosciuto dal Legislatore, per il rispetto dovuto alla libertà di ogni uomo, a meno che non si voglia pensare, come fa il nostro Codice Penale, che una persona non possa liberamente disporre della propria vita.
E però come mai la coscienza sociale non considera tentativo di suicidio il partire come volontario per una guerra, né suicidio il darsi come volontario in un’azione militare che comporta la sicura morte? Qui però gioca il valore di solidarietà per la patria, attuato dall’eroe militare. Ma gli ordinamenti giuridici liberali odierni non sono ancora in grado di recepire come bene giuridico il rispetto della libera volontà di un essere umano, anche con riguardo al solo valore del rispetto della sua volontà che non nuoce ad alcuno?

Piergiorgio Welby, "Senza titolo", 1989

Piergiorgio Welby, “Senza titolo”, 1989, olio su tela 40×50 cm (Collezione Mina Welby)

Io, disabile
Più difficili divengono gli interrogativi per me, disabile. Infatti, tutto il movimento della disabilità, a livello mondiale, si batte per il superamento dell’emarginazione delle persone con disabilità e per la loro integrazione scolastica, lavorativa e sociale, anche nei casi di persone in situazione di “particolare gravità”, quelle cioè che, come dissero alla mamma di Claudio Imprudente, sono dei “vegetali” (se ne legga l’autobiografia Una vita imprudente). E Claudio – e tanti come lui – malgrado la totale dipendenza da altri per tutti gli atti della vita quotidiana e di relazione, continuano a vivere, malgrado tutto; anzi ci danno lezioni di impegno culturale, sociale e politico.
E chi non ricorda Rosanna Benzi, costretta in un polmone d’acciaio, la cui voglia di vivere documentò nella sua autobiografia Il vizio di vivere, nella quale narrò con delicatezza inconsueta una sua voluta esperienza sessuale?
E chi non rimane sbalordito di fronte ai genitori di bambini con gravissime minorazioni che, invece di “depositarli” in istituti speciali, li tengono in famiglia e lottano per la realizzazione dei loro diritti che sono riusciti a strappare al Parlamento e ai Governi con tante lotte, umiliazioni e fatiche?
Di fronte a queste testimonianze, talora eroiche, la richiesta di Welby può sembrare rinunciataria. Ma chi, anche se disabile grave, può ergersi a giudice delle sofferenze di un essere umano? Anche il capo dello Stato, Napolitano, ha recentemente graziato un genitore che, non potendo più sopportare le sofferenze del figlio gravemente disabile, lo ha ucciso. Diremmo allora che “disabile è brutto”? Ma si può dire al contrario che “disabile è bello”?
Io sono fra quelli che si battono per la piena integrazione sociale delle persone con disabilità; chi sono però io per condannare chi tale integrazione non è riuscito a trovare per carenze dei servizi e della società o per non sentirsi realizzato nelle condizioni di vita che non si sente di accettare?

Io, cattolico credente
Molto più intriganti sono gli interrogativi che mi pongo come cattolico non solo anagrafico. Certo, per noi credenti in Dio, la vita, qualunque vita, è un Suo dono e quindi non possiamo disporne liberamente. Mi ha colpito, a tal proposito, il pronunciamento del reverendo anglicano Butler di Londra, secondo il quale l’eutanasia di un neonato disabile grave «non sarebbe moralmente illecita».
Però, per altro verso, secondo il Cristianesimo la vita non va idolatrata, come testimoniano tanti Martiri, che l’hanno immolata per la fede.
Ma per chi non crede in Dio? Posso pretendere che egli abbia la stessa visione della vita e del suo valore trascendente che ne abbiamo noi cristiani? Posso condannare moralmente quanti non riescono a trovare nell’amore di Dio un senso alla loro vita di sofferenze? È questo mio modo di pensare espressione di relativismo morale? Se lo fosse, sarebbe forse migliore, per il rispetto della dignità della persona di Dio, suo creatore, l’intransigenza di chi condanna senza neppure la remora di un piccolo dubbio? Oppure, per non condannare, occorre pretendere un segno di “ravvedimento”?
Eppure Gesù, di fronte all’adultera, non le disse che non la condannava, prima ancora di aver ricevuto un segnale di un suo cambiamento di vita?
Welby ha ripetutamente scritto parole di denuncia a Dio per la sua malattia. Chi di noi, persone con disabilità, specie se credenti, non ha chiesto a Dio il perché della nostra “diversità”? Vorranno, allora, gli arcigni soloni della legge comportarsi come i saccenti amici di Giobbe che vogliono dare risposte e spiegazioni meschine e non degne di Dio alle domande più alte che sono state rivolte al mistero di Dio e della vita?
Certamente Welby era stato educato religiosamente – come me, che ho quasi dieci anni più di lui – in un periodo in cui la pastorale e la catechesi cristiane rivolte alle persone con disabilità e alle loro famiglie erano esclusivamente incentrate sul “valore salvifico della sofferenza e della Croce”. Fortunatamente, però, dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), la riflessione teologica e quindi la pastorale e la catechesi verso di noi sono cambiate, invitandoci a dare un senso alla Croce attraverso la Resurrezione di Gesù e la Sua testimonianza, che si concretizza nella condivisione dei problemi di vita di noi disabili da parte di gruppi sempre più attivi di volontariato e di comunità.
La Comunità di Capodarco, il cui presidente don Vinicio Albanesi ha inviato a Welby una bellissima lettera aperta, richiamando il valore francescano di «nostra sora morte corporale», è intitolata a Gesù risorto. Non per nulla, poi, il recente convegno ecclesiale svoltosi a Verona è stato intitolato Testimoni di Gesù risorto e il senso di questa testimonianza verso il mondo e le persone con fragilità è stato chiaramente esposto nella relazione introduttiva del vescovo di Milano, cardinale Tettamanzi. Peccato che tale senso sia andato annacquandosi, durante i lavori, verso una visione più legalistica e di presenzialismo trionfalistico, come può rilevarsi dalla lettura degli atti, curata dall’«Avvenire», in un bel volume dal titolo Una speranza per l’Italia.
Se Welby avesse avuto da noi credenti una maggiore testimonianza del valore salvifico della Resurrezione di Gesù, avrebbe potuto forse accettare responsabilmente la sua sofferenza sino alla fine? Egli comunque ha fatto di tale sofferenza un’occasione di lotta civile, fortemente sostenuto dai Radicali. Per questo il Vicariato di Roma gli ha rifiutato i funerali religiosi. Ma non è questa una visione più legalistica che orientata verso la misericordia divina?
E a proposito della salvezza annunciata e realizzata da Gesù, non è proprio San Paolo, il grande apostolo di Gesù risorto, che insiste nel dire «la legge uccide, mentre lo Spirito vivifica»?
Queste sono alcune delle domande più intriganti cui non so dare risposte sicure e invito chiunque lo voglia a darmene di più esaurienti.

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