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Caro Fabo, ti scrivo…

DJ Fabo (Fabiano Antoniani)

Una foto di Fabiano Antoniani (DJ Fabo), prima dell’incidente stradale che nel 2014 lo aveva reso tetraplegico e non vedente

Ciao Fabo,
certo che hai fatto un bel casino! Non il casino delle feste in discoteca che tanto ti piacevano, più che altro hai scatenato una gran confusione di parole, opinioni e giudizi.
La tua storia tocca corde dell’anima che preferiremmo lasciare sopite, ci sbatte in faccia interrogativi pesanti, e l’istinto ci porta ad immaginare cosa faremmo noi in quella stessa situazione. Alcuni sono categorici e approvano senza indugi la tua scelta, altri con medesima sicurezza dicono che no, la vita è bella sempre e comunque, loro mai e poi mai desidererebbero farla finita. E via che cominciano ad accapigliarsi per difendere le rispettive ragioni, dimenticandosi di te.
Tutti presi da discorsi etici, politici e teologici, non ci passa per la testa quanto dolore dev’esserti costata la decisione di andartene, proprio tu che la vita l’hai amata, eccome, e l’hai cavalcata con il sorriso finché il destino si è messo di traverso.
Invidio un po’ il convincimento di quelli che affermano sì o no con tanta tranquillità, io invece qualche dubbio ce l’ho, e più ci penso, più mi sorgono domande che mi ingarbugliano i pensieri.

Se ti avessi incontrato alla vigilia della partenza per la Svizzera, avrei provato a farti cambiare idea, ti avrei detto che ci sono persone nelle tue condizioni da più tempo di te che non desiderano la morte, ma riescono a prendere quel poco che ancora di bello regala la vita. Non sarei riuscita a convincerti, lo so, ed è giusto così. Perché ognuno, posto di fronte alla sofferenza estrema e prolungata, reagisce a modo suo e va rispettato.
Quelle persone immobili a letto come lo eri tu non sono Fabiano Antoniani, io non sono Fabiano Antoniani. Anche se convivo dalla nascita con la disabilità, non riesco a mettermi nei tuoi panni, sono troppo scomodi. Io respiro, con un piccolo aiuto, ma non sono costantemente attaccata a una macchina; mangio, mi occorre soltanto qualcuno che mi imbocchi; vedo il mondo intorno a me e interagisco con gli altri parlando senza difficoltà.
Neanche la mia vita è una passeggiata, eppure (o proprio per questo motivo) non so come avrei reagito al posto tuo, e non credo a quelli che premettono il loro giudizio perentorio dicendo «se io fossi al posto suo»; mi suonano “leggeri”, mi pare una banalizzazione del dolore altrui.

A volte, soprattutto quando si ha il dono della salute, si tende a dimenticare che l’esistenza non si spiega con le frasi da cioccolatini grondanti felicità. Non sempre va così, ci si può ritrovare dentro a tunnel neri senza luce in fondo. Beati quelli che la luce la vedono, magari confortati dalla fede, fortunati coloro che riescono a tirare avanti con la speranza di scorgere prima o poi uno spiraglio luminoso.
Rendendo pubblica la tua volontà, hai voluto smuovere le coscienze, peccato che nel baccano delle chiacchiere la tua voce flebile si sia un po’ persa. Abbiamo spiato dal buco della serratura la clinica dove sei andato a morire, mi ha dato fastidio questa curiosità superficiale, penso che anche tu l’avresti trovata per lo meno inopportuna, non era quello il tuo scopo.

La tua storia contiene implicazioni che vanno al di là dell’“affare eutanasia”, non siamo stati capaci di approfondirle, neanche stavolta. Siamo un popolo che si lascia trasportare dall’onda dell’emozione, a patto che sia un’emozione forte. Non sono evidentemente abbastanza forti le storie dei cittadini con disabilità grave come te, che vogliono vivere dignitosamente e lo vogliono fare a casa loro, con un’assistenza personalizzata e adeguata per la quale i fondi statali sono sempre più risicati. Scendono in piazza “armati” di carrozzine e respiratori, ottengono promesse e pietà. La loro richiesta di dignità merita una risposta da parte dello Stato come l’avrebbe meritato il tuo appello alla libertà di decidere.
Ecco la confusione a cui accennavo poco fa. In questi giorni si è discusso solo e soltanto di “dolce morte”, avanti di questo passo rischiamo che l’eutanasia venga vista come un obiettivo da perseguire prima di altri. Prima dell’inclusione, prima dell’assistenza sanitaria e sociale, prima della ricerca che può migliorare la qualità della vita.
Uno Stato moderno, un Paese migliore è quello che difende la vita dei suoi cittadini più deboli e, nello stesso tempo, rispetta le scelte personali di chi, tormentato da un dolore che uccide la voglia di lottare, decide di volare via dal proprio corpo. Lo decide per sé, perché lo ritiene giusto per la sua persona, non ha la “presunzione” di credere che sia la soluzione ideale per tutti, perché il mondo è fatto di sfumature.

Sai, c’è chi parla di “istigazione al suicidio”, qualcuno paventa lo spettro di un nuovo “olocausto” di Stato per eliminare gli anelli deboli della società. Certo, bisogna vigilare, ma credo (mi auguro) che noi persone con disabilità in questi ultimi decenni abbiamo acquisito una consapevolezza sufficiente da poter ragionare ognuno con la propria testa, senza rischi di circonvenzione.
Occorrono intelligenza ed equilibrio, difficile conciliare tutte le ragioni quando c’è in ballo un argomento tanto soggettivo e delicato.
Si è ricominciato a discutere dell’urgenza di una legge sul biotestamento, nel cassetto ve ne sono diverse che vengono rispolverate quando arriva il “Caso” con la C maiuscola. Intanto, silenziosamente, pochi giorni dopo di te un altro italiano ha varcato il confine per spegnersi e ho letto che non meno di cinquanta italiani lo fanno ogni anno.
L’urgenza non si chiama Fabo, Eluana, Piergiorgio, la necessità di una normativa porta anche il nome di quei cittadini che rimangono anonimi e si recano nel Paese elvetico, pagando per non soffrire più.
L’altra urgenza, di segno opposto ma non meno importante, ha il nome delle persone con gravissime disabilità che vogliono fortissimamente vivere e fanno una fatica boia per tirare avanti.

La dignità dell’uomo si lega anche alla libertà di scelta, libertà di vivere con la malattia e libertà di morire quando la sofferenza non è più umanamente sopportabile. Nel mezzo rimangono la rabbia e il dolore per chi rimane aggrappato alla vita tra mille difficoltà, a volte imputabili più alla burocrazia che alla malattia. Nel mezzo rimane la malinconia per te che hai mollato la presa. Un giovane uomo che si congeda dal mondo come hai fatto tu è sempre una sconfitta, da qualunque prospettiva si analizzi la questione. Meriti comprensione e silenzio. Lo so che ti piace il casino, ma sono sicura che in questo caso, ora, preferisci il silenzio.

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