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Creare il giusto contesto per tutti gli alunni: i tempi sono maturi!

Particolare di ragazzo con mano sulla bocca e atteggiamento di ansiaNel giro di pochi giorni abbiamo registrato che almeno due casi, praticamene gemelli, sono risaliti in cronaca per un fatto che può sembrare inusuale, ma che è abbastanza comune: la richiesta rivolta alla scuola, da parte dei genitori di alunni con disabilità intellettiva, di far ripetere l’anno ai figli, per motivi di non adeguatezza al ciclo scolastico successivo.
Si parla di una mamma di Livorno e di un papà di Milano che hanno chiesto l’intervento della Magistratura perché è stata respinta dalla scuola la loro richiesta.
I ragazzi, entrambi con disabilità intellettiva, hanno con la scuola un rapporto sereno che migliora la qualità della loro vita. Le scuole, invece, hanno disposto la promozione di questi due alunni, nonostante in entrambi i casi ci siano gli estremi di legge per consentirne la ripetenza.

La protagonista della storia di Livorno [se ne legga già anche sulle nostre pagine, N.d.R.] è una ragazzina di quindici anni con una disabilità intellettiva grave. Ilaria Bonuccelli, che ha intervistato la madre per «Il Tirreno», scrive: «Quando non va a lezione, Anna si gira verso la mamma e con il suo linguaggio, conquistato a fatica, chiede: “Io scuola?”. Una, due, tre volte. E poi ancora: “Io, scuola?”. Vuole il pulmino. Lo scuolabus. E i compagni, i corridoi, i banchi. “Anche se in classe ci sta pochissimo. Mezz’ora. Poi va in giro, da tutti. Esce dall’aula. È iperattiva. Va a trovare gli altri”. A 15 anni Anna non sa leggere. Ha un difetto cognitivo dalla nascita. Non sa neppure scrivere. Eppure la scuola è il luogo dove è felice. E Valeria Martini, la sua mamma, vuole che resti felice. Il più a lungo possibile. “Bocciatela, per favore”. Ma l’appello ai professori, al consiglio scolastico sembra cadere nel vuoto. Gli insegnanti considerano Anna pronta – rispetto al suo percorso di disabilità – per affrontare le superiori. Forse lo è davvero. Forse è che le ore di sostegno scolastico scarseggiano. E continuare ad aiutare Anna potrebbe togliere o ridurre l’aiuto a un altro alunno. Valeria comprende ma, da mamma, è preoccupata».

L’altro caso, come detto, è a Milano, e questa volta si tratta di un bimbo di cinque anni con autismo che frequenta l’ultimo anno della scuola materna.
È stato promosso alla scuola elementare, nonostante il parere negativo degli esperti che ne seguono la crescita e che avevano richiesto per lui la ripetizione dell’anno, in modo da acquisire quel minimo di maturità tale da permettergli di elaborare un distacco e iniziare un’esperienza nuova, al momento troppo impegnativa per lui. E anche in questo caso, tra le motivazioni esposte dalla scuola, occhieggia una difficoltà che nulla ha a che fare con l’alunno: «Nell’anno di trattenimento – scrive il Collegio Scolastico degli Educatori – potrebbero non essere garantiti la continuità del personale educativo di sostegno dedicato al bambino e lo stesso monte ore del periodo precedente», riporta Simona Ravizza sul «Corriere della Sera».

Appare chiaro, leggendo gli ottimi articoli di Bonuccelli e Ravizza, che qui non c’è ombra di iperprotezione da parte dei genitori che chiedono di fermare i figli per un anno, ma solo una valutazione nata dall’osservazione costante del rapporto tra i ragazzi e l’ambiente che li circonda. Se, per una volta, l’ambiente è inclusivo, cioè risponde alle esigenze dell’alunno con disabilità intellettiva, perché non chiedere la reiterazione di quel beneficio attraverso la ripetizione dell’anno? E non si tratta nemmeno di paura del futuro: quella riguarda tutti i genitori, soprattutto quando si passa dalle medie alle superiori. La richiesta della ripetenza risponde nel caso di Livorno solo a ciò che è in atto: prolungare un momento felice e proficuo che non sarà per sempre e che, negato, toglierà a quella ragazzina un anno di benessere che non recupererà mai più.
Non si capisce perché le scuole – invece di rispondere alle istanze dei genitori, dicendo per tempo la verità a proposito della carenza di sostegno – hanno creato un “mostro burocratico” che fa sembrare isterici i genitori e geni incompresi i bambini; un “mostro” che solo i Tribunali Amministrativi Regionali (TAR) possono azzoppare. Un danno ulteriore alle famiglie che devono rivolgersi a un legale, sempre che ne abbiano la capacità economica. Un danno anche d’immagine, poco compreso anche nel mondo della disabilità.
Non si comprende, dunque, come possano le Istituzioni Scolastiche pensare di risolvere i problemi della scarsa disponibilità di insegnanti di sostegno gravando la dignità degli alunni con disabilità intellettiva di una promozione che, evidentemente, è solo strategica. Come strategica è la richiesta di ripetenza da parte dei genitori. Ma almeno questa fa bene agli alunni, non li pregiudica e non li danneggia. Alla luce dei due casi esposti, questa non è retorica, è allarme rosso.

Evidentemente non è ancora morta la cultura dei “disabili a parte”, del “favore” da rendere ai “meno fortunati”. Non si comprende come sia possibile – a fronte di un aumento importante di alunni con disabilità intellettiva – non occuparsi seriamente di un cambiamento radicale del contesto scolastico, come prevedeva originariamente la legge sull’inclusione.
Se la scuola fallisce in questa fondamentale operazione culturale, quella dell’inclusione, la società fallisce. Salvo poi citare Franco Basaglia, soprattutto in questi giorni in cui ricorre il quarantennale della Legge che porta il suo nome.
Quelle che oggi chiamiamo persone con disabilità cognitiva e/o intellettiva nelle sue diverse sfumature, una volta riempivano i manicomi. Cerchiamo di non tornare indietro, almeno concettualmente. Oggi le diagnosi si fanno presto, da bambini. La loro inclusione in società comincia a scuola perché è lì che crescono i bambini e i ragazzi, non chiusi in casa. È socializzando a scuola che tutti abbiamo acquisito identità sociale ed educazione. Manca tutto il resto dopo la scuola, è vero. Ma già rispetto a vent’anni fa la tendenza è cresciuta e sul piano culturale siamo in un altro mondo. Attenzione, però: i manicomi sono chiusi, ma le istituzioni totali ce le abbiamo in testa, ben ferme. A volte, senza aiuti, sono le nostre stesse case.

I due casi di Livorno e Milano dimostrano che ciò che si era creato per sostenere la dignità degli alunni con disabilità si sta ritorcendo contro di loro. Non si comprende ancora – o si fa finta di non comprendere – perché sul piano culturale non intervengano anche gli insegnanti curricolari e i genitori tutti, perché la scuola è di tutti, con e senza disabilità.
Non è più ammissibile l’ignoranza di queste cose da parte degli adulti che hanno parte nella scuola: genitori che considerano un fastidioso dovere “accettare” un compagno con disabilità intellettiva nella classe del proprio figlio; professori curricolari che li ritengono “pseudo-alunni”, altrui per giunta.
I compagni di classe, al contrario, mostrano spesso una maturità che purtroppo non fa il paio con il potere gestionale degli adulti. Da quanto ho constatato in diciotto anni di esperienza, sono assolutamente intrisi di capacità di condivisione, di responsabilità, di amore. Di amore disinteressato, sì. E sono così coinvolti nella condizione personale del compagno con disabilità che spesso immaginano nel loro futuro un lavoro di servizio alla disabilità.
Sono loro il bene più prezioso che perderanno gli alunni con disabilità intellettiva quando finirà anche la scuola superiore: i coetanei, i testimoni della loro esistenza, il rovescio della medaglia.
Ecco, le forze esistono. La volontà pure. La Legge tanto vituperata che include nella scuola italiana gli alunni con disabilità ha creato un’abitudine che deve (deve!) diventare fonte di pensiero critico. Sono maturi i tempi per creare il giusto contesto scolastico per gli alunni tutti, con e senza disabilità, perché così, con le toppe, i rammendi, le verità taciute ai genitori, i Decreti Ministeriali che di tanto in tanto aggiornano l’interpretazione di Leggi oltretutto varie (sin troppo) ed eventuali (non facciamoci mancare niente!), si rischia di considerare superfluo il principio dell’inclusione scolastica, anzi: della scuola di tutti.

Chi manda i figli a scuola pubblica deve sapere che avranno compagni con disabilità, e devono farsene carico, perché i figli faranno delle domande a cui è obbligatorio rispondere in maniera corretta. Anche chi lavora nella scuola deve entrare nell’ordine di idee che il collega di sostegno è un insegnante della classe, non il “guardiano di un alunno”. E che non si può considerare la graduatoria del sostegno solo come una “porta sul mondo del lavoro”. Perché gli alunni con disabilità hanno bisogno più degli altri di insegnanti motivati e particolarmente colti. Perché c’è un modo sottile e affascinante, che non è di tutti – è vero- per parlare loro di filosofia, di matematica, di poesia, di arte, di ambiente, di musica. Per non dire di quanta tecnologia, sofisticatissima, sono fruitori i ragazzi con disabilità, anche quelli con disabilità intellettiva. Basti comprendere che il mondo a loro misura è esattamente questo: dell’armonia e della bellezza. Basta (si fa per dire) voler fare la fatica di cercare un canale di comunicazione, che è un lavoro pesante ma creativo. Ed è l’unico che vale.

Per fortuna esistono esempi capaci di mettere in crisi queste catastrofiche certezze. Gesti potentissimi capaci di ribaltare la realtà. Penso ad esempio a Seregno, in Lombardia, e alla professoressa di Simone, ragazzo con autismo [storia raccontata su queste stesse pagine da Simonetta Morelli, N.d.R.]. Oppure a quanto accade al Liceo Scientifico Alessandro Volta di Reggio Calabria, il liceo di mio figlio, dove ci sono insegnanti curricolari che hanno scelto di formarsi molto seriamente, «perché – ha spiegato una professoressa di lunga carriera che con molta umiltà ha seguito un master sull’autismo insieme ai colleghi di sostegno – dobbiamo renderci conto che ci sono anche loro, che fanno pienamente parte del nostro tessuto scolastico. E sono alunni come gli altri. Siamo noi a doverci attrezzare per istruirli, come accade con tutti gli altri. Non possiamo più far finta di niente». Non è l’unica in questa scuola. E sicuramente ce ne sono tanti, nel Paese, di cui non sappiamo niente.
Un gesto così dà dato visibilità a tutti gli alunni con disabilità della scuola e rende giustizia ai docenti di sostegno che possono ricominciare a pensarsi insegnanti di tutta la classe. L’impegno degli insegnanti curricolari restituisce i ragazzi tutti, con e senza disabilità, a un contesto civile altissimo.
Il problema, per i genitori, è uscire da scuole così; perché fuori nessun “non addetto ai lavori” – vicino di casa, parente, datore di lavoro, amico – si forma, si interessa, cerca di capire, di sapere, di andare oltre il compatimento, oltre il «vorrei aiutarti ma non so come fare». Fai, se puoi. Formati e confrontati. Chiedi ai genitori oppure a chi accompagna quella persona con disabilità. Cerca la crepa nel muro dell’incomunicabilità, infila la mano, graffiati, trova il contatto con quel mondo muto e solo.
Se ti interessa la sorte dei tuoi conoscenti, dei tuoi parenti o dei tuoi amici con disabilità intellettiva, insegui la curiosità. Studia e domanda, perché i genitori non sono eterni. Confrontati e fai piccole cose, con la vocazione delle persone intelligenti, civili, dignitose. Fai. Punto.

Il presente testo è già apparso in InVisibili, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “Quelle promozioni d’ufficio che affossano l’inclusione”. Viene qui ripreso, con alcuni minimi riadattamenti, per gentile concessione.

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