Non chiamiamola punizione, chiamiamola sensibilizzazione ed educazione

Concordano, i Presidenti delle Associazioni ANGSA e ANFFAS, sulla necessità che il provvedimento adottato nei confronti di uno studente protagonista di gesti violenti su un compagno con autismo (affiancare un altro studente con disabilità, per aiutarlo negli studi), debba essere visto all’insegna di un approccio educativo e non punitivo. Sollevano per altro alcune perplessità, su quello stesso provvedimento, dalla necessità di non lasciare solo il ragazzo accanto al compagno con disabilità, all’opportunità di portare all’interno di quella scuola alcuni esperti del mondo delle Associazioni

Uomo di profilo che rifletteUno spintone in aula, schiaffi e pugni all’uscita della scuola nei confronti di un compagno con autismo: è accaduto in un Istituto Superiore di Palermo e allo studente protagonista di tali gesti, davanti agli altri compagni, sono stati comminati quindici giorni di sospensione, seguiti dall’affiancamento a un’insegnante di sostegno, per dedicare una parte del proprio tempo a leggere libri e ad aiutare nello studio un ragazzo con disabilità di un’altra classe.
«È una bella iniziativa – ha dichiarato all’agenzia “Redattore SocialeBenedetta Demartis, presidente nazionale dell’ANGSA (Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici) – perché mette il ragazzo di fronte alle difficoltà di alcuni compagni e questo dovrebbe servire per sensibilizzarlo».
E tuttavia, secondo Demartis sono necessarie anche alcune puntualizzazioni. Innanzitutto l’errore di «presentare il provvedimento come una punizione e che come tale sia percepita anche dal ragazzo con disabilità». Inoltre, la possibilità che, «se lasciato solo accanto al compagno con disabilità, il ragazzo assuma comportamenti inadeguati».
La Presidente dell’ANGSA ha suggerito quindi una soluzione diversa, anche se simile, sulla base della propria esperienza familiare e associativa: «Nel Centro per ragazzi autistici di Novara – ha affermato infatti – arrivano sresso ragazzi allontanati dalle scuole per avere insultato o maltrattato compagni con disabilità. Qui stanno con i ragazzi e imparano a conoscerli, ma con il filtro degli operatori, che li guidano e li indirizzano. Solo così, tramite questo accompagnamento, possono ricevere davvero una buona lezione. Si tratta di un sistema così efficace che alcuni di questi ragazzi tendono a tornare nel Centro anche oltre il periodo stabilito, perché qui si sentono utili e graditi e perché hanno instaurato ottime relazioni. Cosicché, nei cosiddetti “bulli”, abbiamo scoperto ragazzi che avevano tanto da dare dal punto di vista umano, ma non se n’erano mai accorti».
«Mettere quindi questi ragazzi a contatto con la diversità e la disabilità – ha concluso Demartis – apre loro un mondo di cui non hanno mai saputo nulla e li rende differenti e più consapevoli. Però, ripeto, non chiamiamola punizione: meglio parlare di educazione!».

Anche secondo Roberto Speziale, presidente nazionale dell’ANFFAS (Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale), pure lui interpellato dal «Redattore Sociale», «una scelta coerente con le finalità di una scuola moderna dovrebbe avere un approccio più educativo che punitivo».
Lo stesso Speziale, per altro, ha sollevato anche alcune perplessità, chiedendosi: «Se quella scuola si limitasse allo spostamento in un’altra classe dell’alunno autore di questa vicenda, pur facendolo occupare di uno studente con disabilità, siamo sicuri che il ragazzo si renderà conto della portata e della gravità del gesto compiuto? Temo di no, anzi si potrebbe, ancor di più, radicare in lui un’avversione verso i propri compagni con disabilità».
Secondo il Presidente dell’ANFFAS, quindi, la scuola dovrebbe «portare degli esperti del mondo delle Associazioni di famiglie al proprio interno, per spiegare a tutti coloro che frequentano l’istituto, prendendo a pretesto l’accaduto, cosa significhi essere una persona con disturbo autistico o disabilità intellettiva e perché questi compagni si comportano in modo diverso dagli altri. Dal canto loro, le Associazioni sottolineerebbero anche come proprio i compagni possano essere per questi ragazzi i fornitori principali di sostegni, capaci di aiutarli concretamente ad essere pienamente inclusi nel contesto scolastico e sociale». «Questo sì – ha concluso Speziale – contribuirebbe a contrastare stigma, ignoranza e pregiudizi, che spesso sono la vera causa di comportamenti inadeguati e di quello che chiamiamo “bullismo”». (S.B.)

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