Negli ultimi decenni del secolo scorso si è assistito ad una controversia significativa incentrata su due diversi modi di concettualizzare la “disabilità”: disabilità come deficit rispetto alla norma, o semplicemente la disabilità come diversità naturale tra le persone; disabilità come realtà biologica o disabilità come socialmente costruita.
L’adozione di una o dell’altra prospettiva, noti rispettivamente come modello medico e modello biopsicosociale, ha avuto e ha importanti implicazioni per i dibattiti di politica pubblica e per gli approcci sociali e medici alla disabilità. Infatti, mentre nell’approccio biomedico – che definisce la disabilità come un deficit corporeo, psichico o mentale che colpisce una persona – gli interventi vertono principalmente sulle cure e mirano alla guarigione del singolo o per lo meno al suo riadattamento alla società, in quello biopsicosociale – che definisce la disabilità non più come uno stato ontologico del soggetto, ma come una condizione dinamica, quale conseguenza o risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo e i fattori personali e ambientali (fisici, culturali, simbolici) che rappresentano le circostanze in cui vive – viene spostata l’attenzione dalle limitazioni funzionali delle persone ai problemi causati dagli ambienti sociali e culturali disabilitanti. Quest’ultimo è in sostanza uno strumento con cui è possibile smascherare le tendenze “disabilizzanti” della società moderna, per generare politiche e pratiche in grado di facilitarne lo sradicamento.
Il modello biopsicosociale, basato sul paradigma dei diritti umani, affermando che le disuguaglianze o le discriminazioni che affiorano in condizioni legate a caratteristiche come il sesso, l’orientamento sessuale, l’etnia, la disabilità ecc. non sono basate su determinanti biologici, ma sono il risultato del significato e del valore che vengono dati a quelle distinzioni biologiche in un contesto sociale che cambia nel tempo, rivoluziona la prospettiva da cui si guarda alla condizione umana e quindi alla disabilità.
La disabilità, lungi dall’essere esperienza di una minoranza, viene ad essere parte della vita di ciascuno, in quanto ogni corpo è fragile, finito e vulnerabile. Quindi la comprensione della disabilità non dev’essere limitata esclusivamente a considerazioni relative alle reali perdite funzionali fisiche o psicologiche e ai presunti rischi associati, ma deve anche tenere conto del valore o della mancanza di valore attribuito a tali perdite e vulnerabilità.
Inserendo la disabilità nel quadro dei diritti umani, tale prospettiva – rafforzata dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità del 2006 – ravviva e dà nuova forza al dibattito sul valore da dare alla vita di una persona con disabilità.
Comunemente, la risposta che viene data da una persona “sana” dinanzi a una grave disabilità è «non vorrei vivere in questo modo», mentre la prospettiva di una persona con disabilità – specie se dotata di supporti sociali, relazionali, economici ecc. – può essere completamente diversa. Spesso, inoltre, sono proprio le persone “senza disabilità” che chiedono l’eutanasia o il suicidio assistito per le persone con disabilità, o l’aborto per feti che potrebbero avere una disabilità.
Molte sono le domande etiche relative alle persone con disabilità: la vita di una persona con disabilità vale meno? Come rispondere alla richiesta di eutanasia da parte di una persona con disabilità? L’aborto incontra la disapprovazione della maggioranza delle persone, ma non è così nel caso di un’anomalia fetale: perché? Ed è giusto? Si deve autorizzare la morte per i neonati con disabilità? Quale livello e quale tipo di assistenza sanitaria bisogna fornire alle persone con disabilità? Come ci si deve comportare con le persone con disabilità cognitive e mentali impossibilitate a comunicare e a prendere autonomamente le proprie decisioni?
Giudizi di valore sulla qualità della vita di una persona con disabilità o la mancanza di conoscenza della sua esistenza quotidiana possono ostacolare le cure adeguate, comprese quelle espresse dalla persona stessa. A causa dei pregiudizi, fioriti nei secoli intorno alle persone con disabilità e sulla qualità della loro vita, si può dare per scontato che queste non vogliano essere rianimate o che vivere con un ventilatore o con qualsiasi altro dispositivo possa significare per loro maggiore sofferenza, piuttosto che considerarla come una tecnologia liberatoria.
Nel processo decisionale sul fine vita le persone con disabilità vedono aumentata la loro vulnerabilità, perché sono considerate incapaci di decidere in merito alla propria morte, sebbene abbiano preso decisioni sulla propria vita per anni.
Sfidando atteggiamenti e valori sociali che hanno prodotto pratiche e politiche professionali che hanno consolidato forme di discriminazione, il Comitato Sammarinese di Bioetica, introducendo nei suoi documenti ufficiali la questione della disabilità nella prospettiva dei diritti umani, ha voluto rispondere a queste e ad altre domande etiche, al fine di informare la pratica e di influenzare la politica, migliorando così la vita delle persone con disabilità.
A tal proposito, il Comitato stesso – avvalendosi della consulenza di Giampiero Griffo, uno dei “padri italiani” della Convenzione ONU – quale espressione del movimento delle persone con disabilità, ha licenziato tre importanti documenti nei quali il dibattito sulla disabilità, nelle sue diverse sfumature e sfaccettature, assume rilevanza scientifica e assurge nel panorama bioetico mondiale.
Nel primo di tali documenti, intitolato L’approccio bioetico alle persone con disabilità, approvato il 25 febbraio 2013 [se ne legga già ampiamente su queste stesse pagine, N.d.R.], il Comitato affronta il tema della disabilità a partire dalla Convenzione ONU, quale Legge Internazionale con un rilevante valore culturale e bioetico.
In esso, argomentando intorno ai principi contenuti nella Convenzione e sull’approccio bioetico basato sui diritti umani, il focus viene spostato dalla disabilità alla persona con disabilità quale titolare di diritto. E vengono esaminati tre temi – eutanasia, consenso informato e fine vita – sottolineandone lo stretto legame tra questi e lo stigma sociale negativo che accompagna le persone con disabilità.
Nel secondo documento, licenziato nel luglio del 2017 e intitolato Bioetica delle catastrofi, il Comitato inserisce la problematica dell’inclusione delle persone con disabilità nelle azioni necessarie a fronteggiare catastrofi naturali, tecnologiche, conflittuali e sociologiche.
In esso viene affermata – ribadendo quanto sancito nell’articolo 11 della Convenzione ONU (Situazioni di rischio ed emergenze umanitarie) – la necessità di ridefinire modalità di funzionamento dei servizi di emergenza e di attivare una formazione altamente specifica per gli operatori del settore, con l’obiettivo di intervenire adeguatamente, quando se ne presenti la necessità, anche su questa parte di popolazione.
Nel documento, infine, intitolato Processo decisionale nella presa in cura della persona malata nel fine vita, licenziato nello scorso mese di febbraio, il Comitato ha approfondito gli aspetti scientifici, bioetici e giuridici del processo di cura della persona morente, diritto fondamentale sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, e in particolare delle cure palliative, terapie che estese a tutte le fasi evolutive dell’essere umano (dal neonato, al bambino, all’adolescente, all’adulto giovane o maturo e all’anziano) garantiscono il rispetto della dignità umana.
Qui, confermando l’interesse nei confronti della tematica specifica e l’impegno assunto nei due precedenti documenti, ci si occupa di disabilità analizzando quattro tematiche riguardanti il fine vita e le persone con disabilità.
La prima riguarda «l’approccio alla condizione di disabilità», cioè della visione della disabilità: quella che se ne ha dal di fuori e la percezione di chi la vive. Viene quindi ribadito «che la qualità di vita dipende non tanto dalle conseguenze di patologie – che possono anche limitare le attività quotidiane fino al punto di costringere alla totale dipendenza da macchine e assistenti individuali – quanto dalla maniera in cui le persone sono messe in grado di condurre la propria vita in maniera autonoma, autodeterminata, indipendente ed interindipendente».
La seconda concerne «gli elementi di contesto con cui la persona con disabilità si relaziona». In tal senso, trattando questo tema viene ribadita l’importanza del miglior uso possibile del progresso scientifico e tecnologico, dell’impegno etico-politico per la rimozione delle barriere fisiche e mentali che sono alla base delle condizioni di discriminazione e di vulnerabilità, e che si manifestano con gradi diversi in relazione alla complessa interazione tra persona con disabilità, ovvero i suoi gradi di “funzionamento” e l’ambiente in cui vive.
«Persone con importanti limitazioni funzionali di grado simile – si legge nel documento – possono infatti percepire in modo differente la propria dignità e qualità di vita in rapporto alla presenza o meno di adeguato sostegno familiare o sociale, di valide relazioni umane, di buona qualità di cura […]. Tali fattori spesso influenzano in maniera significativa le decisioni sul fine vita».
E ancora, la terza questione si occupa di un tema quasi mai oggetto di studi e cioè «le forme di accompagnamento al fine vita» per le persone con disabilità. Innovativo anche in questo àmbito, nel panorama bioetico internazionale, il documento mette in evidenza che le persone con disabilità hanno vulnerabilità e bisogni diversi di ogni altra persona che deve affrontare la transizione verso la fine della vita e nel complesso, quindi, non sempre è possibile adattare ad esse le cure palliative di routine. Pertanto, per evitare l’insorgere di sentimenti di impotenza che possono portare al nichilismo terapeutico in cui le opzioni che sarebbero normalmente offerte sono ritenute inappropriate, inutili o futili in base al pregiudizio della disabilità, è fondamentale formare lo staff sanitario sui temi inerenti la disabilità, al fine di metterlo in grado di assumere stili d’intervento e competenze che, pur non rientrando nei tradizionali àmbiti di assistenza sanitaria, garantiscano il rispetto della dignità umana delle persone con disabilità.
La quarta questione, infine, è quella relativa al «consenso informato».
La Legge Italiana 219/17 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) recita all’articolo 1: «Ogni trattamento medico/sanitario deve essere preceduto da consenso libero e informato»; pertanto questo è un tema molto delicato che non può essere inteso – in particolare se la persona si trova in una condizione di disabilità – come la mera fornitura di informazioni su quanto sta accadendo, ma significa iniziare un percorso che avrà bisogno di tempi, di comprensione e di accettazione.
Il consenso informato – comprendendo le nozioni di diritto, autonomia individuale, autodeterminazione e libertà – è la pietra angolare del rispetto della persona. Ma in presenza di persone con disabilità, in particolare intellettiva e relazionale, ottenere un vero consenso informato può risultare problematico, in parte a causa del pregiudizio sulle persone con disabilità, e in parte a causa del tipo di disabilità.
Per garantire dunque il diritto di scelta, è necessario adottare – quando si regola la capacità giuridica delle persone con disabilità e specialmente in quelle situazioni in cui è necessario l’intervento da parte di terze persone -, il modello dei diritti umani, sancito nella Convenzione ONU e basato sulla dignità intrinseca di ogni persona, che nella presa di decisione sostiene il principio del «supporto/accompagnamento» piuttosto che quello tradizionale di «sostituzione». Questo comporta, sia nella pratica clinica che nella cura di fine vita, l’adozione di strumenti appropriati in materia di informazione e comunicazione, ma anche l’assunzione, da parte dello staff sanitario, di un approccio basato “sull’ascolto” e “sull’umanizzazione” della disabilità e/o della malattia.
Per garantire pertanto un consenso che rispecchi la volontà della persona con disabilità o del rappresentante legale della stessa, il documento del Comitato Sammarinese parla di «un adeguato counselling, il cui obiettivo non deve limitarsi alla trasmissione di un’informazione, la più chiara e precisa possibile, ma deve comprendere il “prendersi cura”» della persona, occupandosi dei casi specifici e delle condizioni particolari.
In più, una corretta informazione deve fondarsi, oltre che sugli aspetti tecnici della diagnosi, anche sull’etica dell’accompagnamento e a tal fine sarebbe opportuno e auspicabile il coinvolgimento nel counselling delle persone con disabilità e/o dei loro genitori quali modello di ruolo.
Un plauso, in conclusione, va al Comitato Sammarinese di Bioetica, per la volontà e la capacità, sempre con rigore scientifico, di realizzare il mainstreaming* della disabilità anche in campo bioetico, dove permangono ancora forti pregiudizi e poca competenza sul trattamento delle persone con disabilità rispettoso dei loro diritti umani.
*Inserimento dei provvedimenti riguardanti la disabilità in tutti i provvedimenti generali.