Che cosa significa “dare voce” alle persone con disabilità

«Anche se è un percorso impervio e in salita, questa ricerca ci costringe a ripensare integralmente la cultura (e con essa le politiche) attraverso cui vengono garantite le libertà di scelta e di decisione di tutte le persone, anche di quelle che, loro malgrado, sono state costrette nell’alveo patologizzante della “minorità”»: così Gianluca Giachery conclude questa sua recensione del libro “La segregazione delle persone con disabilità. I manicomi nascosti in Italia”, opera curata da Giovanni Merlo e Ciro Tarantino di cui anche «Superando.it» si è già occupata in diverse occasioni

Scultura di figura antropomorfica con mani davanti alla faccia

Una scultura antropomorfa che ben rappresenta la segregazione delle persone con disabilità

La filosofa americana Martha Nussbaum ha recentemente, e in maniera radicale, posto al centro della discussione politico-sociale la questione dei diritti delle persone con disabilità. Sono persone cosiddette “diversamente abili”, con patologie psichiatriche o con problematiche importanti che, spesso, vengono vissute dal contesto sociale come “invisibili”, sottoposte, ancor oggi, a discriminazioni e stigmatizzazioni di vario tipo, anche nei Paesi cosiddetti civilizzati, cioè, quelli occidentali, dove lo sviluppo capitalistico e politico-sociale sembrava aver raggiunto – almeno a livello legislativo – un discreto grado di inclusione e di riconoscimento delle tutele individuali.
Come ha, tuttavia, sottolineato la stessa Nussbaum, la lungimiranza giuridico-legislativa non sempre corrisponde all’effettiva realizzazione dell’inclusione o del superamento di uno stigma tanto radicato – come aveva segnalato a suo tempo Goffman [il sociologo canadese Erving Goffman, N.d.R.] -, così che si fa fatica a far incrociare l’idealità (quasi utopica) del pieno riconoscimento dei diritti delle persone disabili con la loro attuazione.

Altro esempio, a tal proposito, che ci permettiamo di portare all’attenzione del Lettore, è quello che riguarda la “Legge 180”, la cosiddetta “Legge Basaglia”, per la quale – a distanza di quarantuno anni dalla sua promulgazione parlamentare – continuano a permanere difficoltà (di natura politico-economica, certo, ma anche culturale) nella sua completa realizzazione.
Insomma, le inadempienze non mancano in riferimento al contesto nazionale, europeo e internazionale. La ricerca curata da Giovanni Merlo e Ciro Tarantino (La segregazione delle persone con disabilità. I manicomi nascosti in Italia, Maggioli, 2018) mette in evidenza, in maniera chiara e inequivocabile, lo stato dell’arte, spesso drammatico, dell’accreditamento effettivo dei diritti e del trattamento riservato alle persone con disabilità, sempre sul filo di un riconoscimento labile e che, soprattutto, non garantisce una stabilità temporale.
Il problema, allora, come ben sottolinea Merlo, è la possibilità per le persone con disabilità di «vivere nella società con la stessa libertà di scelta delle altre persone» (p. 9), senza dimenticare che tale «libertà di scelta» è un elemento innovativo e caratterizzante i più recenti e significativi atti legislativi, che tuttavia raramente trovano reale applicazione. Per questo, nel momento in cui si continua da più parti a decretare la residenzialità istituzionale come “superata”, essa rimane pur sempre l’unico strumento di accoglienza per le persone disabili, che non sempre in realtà necessitano di interventi così intensivi, ma che, soprattutto, non vengono interpellati nella possibilità di scelta e di decisione.
Perché parlare di “libertà” in generale non ha alcun senso, se non si connette quel termine, appunto, alla capacità di scelta e decisione del soggetto.

È qui che Merlo – direttore della LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità) – sottolinea come la traslazione – non solo semantica – tra “residenzialità” e segregazione è un evento che negli ultimi decenni si è amplificato, raggiungendo livelli di attenzione che vanno al di là dei casi – certo eclatanti – delle violenze su persone fragili, denunciate dalla stampa nazionale all’interno di comunità, residenze assistenziali o sanitarie.
La questione della segregazione (termine forte ma attualissimo e che richiama l’allarme lanciato a suo tempo da Basaglia), scrive Merlo, «significa separazione forzata dal resto della comunità. Significa l’obbligo […] di vivere in una particolare sistemazione, dove non è possibile scegliere dove e con chi vivere, frequentare certi luoghi e certi ambienti, a causa della propria disabilità [grassetti redazionali nella citazione, N.d.R.]» (ivi).
Una segregazione diffusa che è confermata, nella ricerca curata da Merlo e Tarantino, dai numeri importanti che emergono dall’intervento di Daniela Bucci, la quale sottolinea che in Italia «sono 13.203 i presìdi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari attivi al 31 dicembre 2014 (ultimo dato disponibile)» per un totale di circa 400.000 posti (p. 13).
L’attenzione si concentra su due fattori: lo status delle persone inserite nelle residenze (per la maggior parte anziani); la qualifica degli operatori che sono deputati all’assistenza. Oltre al clima organizzativo interno, che solo può garantire un livello dignitoso se non elevato di assistenza, vi è il fattore della contenzione, evidenziato sempre da Bucci, che non ha nel nostro Paese – infatti, a differenza di quanto si possa pensare, è una pratica diffusa e continuativa – una specifica dimensione normativa: si passa dalla contenzione fisica a quella meccanica (con le classiche “fettucce” che legano la persona mani e piedi a letto), a quella farmacologica e ambientale, legata alla sorveglianza in ambienti “custodiali” e, pertanto, coercitivi (p. 21).

È evidente che, in questa situazione così labile, il potere di intervenire sulla persona con difficoltà o disabilità è delegato quasi interamente alla discrezionalità valutativa dell’operatore o di chi gestisce la struttura residenziale.
In questo caso, come si può immaginare, gli abusi e le violenze sono difficilmente monitorabili (se non nei casi esecrabili che la stampa fa emergere come eventi relegati alla cronaca di costume), ma ciò sta ad indicare proprio quel che Merlo ribadisce con sobria inquietudine e che si può riassumere in questo modo: se si limitano le libertà individuali (ovvero legate alla tutela dello spazio perimetrale fisico), aumenta la possibilità di violare continuamente quella stessa capacità di agire che ci permette di riconoscere il pieno valore della nostra soggettività.
Prezioso, per questo, è lo studio di Tarantino, che ricostruisce genealogicamente la trama della segregazione. «Sotto la voce “segregazione” – scrive – confluiscono, in tassi variabili e indefiniti, componenti di isolamento dalla collettività, di costruzione alla convivenza, di limitazione dell’autodeterminazione sulla propria vita e sulle attività quotidiane, di riduzione della partecipazione; mentre meno ricorrenti sono i riferimenti alle mere dimensioni strutturali dei luoghi, al contesto prevalentemente medico e alla pochezza di sistemi di verifica dei processi” (p. 72).

Che cosa significa, allora, “dare voce” alle persone con disabilità? Quando tra gli Anni Cinquanta e Settanta del Novecento si diede avvio alla sperimentazione delle comunità terapeutiche (o socio-terapeutiche), in Inghilterra, in Francia, in Italia, negli Stati Uniti, ad opera di pionieri quali Cooper, Laing, Maxwell Jones, Basaglia e Napolitani, vi era la necessità del superamento strutturale di istituzioni totali quali i manicomi. Si trattava di ridare dignità e possibilità di nuova vita progettuale a persone che erano state segregate per decenni.
È una questione, viene allora da chiedersi, solo di carattere assistenziale, sanitario o di corretto funzionamento delle strutture? Vi sono studi acclarati ormai a livello internazionale che hanno dimostrato come le strutture residenziali – soprattutto quelle a grande capienza – siano costose, estremamente burocratizzate da pratiche e procedure sempre più raffinate e articolate, legate quasi sempre alla gestione di privati (profit e non profit), che devono inesorabilmente fare i conti, più che con la qualità di vita delle persone, con i budget assegnati e con le voci di bilancio.
Stefano Rodotà, nella sua lunga carriera di giurista, filosofo e attivista dei diritti umani, ha sempre sostenuto l’inestricabile legame tra il rispetto integrale della dignità umana e l’attenzione dei sistemi politici a mettere in atto tutti gli strumenti di salvaguardia di tale dignità.
Spesso si dimentica che già Kant aveva mirabilmente evidenziato che il “rischiaramento della ragione” pertiene inequivocabilmente alla possibilità dell’uomo di uscire dal proprio “stato di minorità”. Per questo, segnalava ancora Kant, è necessario fare affidamento alla cultura (Kultur).
Anche se è un percorso impervio e in salita, allora, La segregazione delle persone con disabilità ci costringe a ripensare integralmente la cultura (e con essa le politiche) attraverso cui vengono garantite le libertà di scelta e di decisione di tutte le persone, anche di quelle che, loro malgrado, sono state costrette nell’alveo patologizzante della “minorità”.

Ricercatore in Scienze Umane, Docente a Contratto presso l’Università di Torino, Professional Counselor (indirizzo PSOA), Consulente al ruolo e alle organizzazioni, Formatore e Supervisore clinico-educativo. Il presente testo è già apparso in «Paideutika. Quaderni di formazione e cultura», n. 30, 2019 e viene qui ripreso – con minimi riadattamenti al diverso contenitore – per gentile concessione.

A questo link è disponibile, nella colonnina a destra dell’articolo, un elenco di tutti i testi più recenti dedicati dal nostro giornale alla segregazione delle persone con disabilità e in alcuni casi allo stesso libro La segregazione delle persone con disabilità. I manicomi nascosti in Italia, curato da Giovanni Merlo e Ciro Tarantino.

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