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Per un’informazione corretta e plurale sull’autismo

Gabriele, giovane adulto con autismo

Gabriele, giovane adulto con autismo

La comunicazione è un fenomeno molto complesso, basti pensare a tutti i processi che riesce ad innescare. Comunicare significa trasmettere, veicolare informazioni o idee, far conoscere qualcosa o qualcuno. Deriva dal latino communis, cioè comune. Che appartiene a molti, che è pubblico… Tutto ciò che noi sappiamo è condizionato dal passaggio continuo di informazioni tra noi e il sistema sociale, e viceversa.

Mai come in questo momento storico la comunicazione rappresenta un vero e proprio nervo scoperto. Dobbiamo esserne consapevoli anche quando parliamo, come in questo mio testo, di autismo, di una problematica – cioè – dove innegabile è il bisogno di contare su un’informazione corretta e plurale, senza la quale non può esserci conoscenza.
Non si può infatti chiamare corretta e plurale l’informazione che discrimini qualcuno o qualcosa, ancor più in assenza di un contraddittorio. La comunicazione, infatti, non è il semplice parlare, ma presuppone necessariamente una relazione e quindi uno scambio, tra individui, di informazioni di varia natura. Ma ciò è possibile davanti a un’interazione unica?

Eludere questa domanda rende concreto il rischio che ai contenuti si contrappongano slogan. Le avvisaglie ci sono tutte. Ecco lo stucchevole tambureggiante richiamo all’esclusività della matrice genetica dell’autismo (“dimenticando” che la ricerca dimostra quanto meno l’incompletezza di questo assunto); la superficiale valutazione degli effetti di studi recenti condotti su alterazioni del sistema immunitario, ormonale, metabolico (“dimenticando” come questi studi mostrino la concreta possibilità dell’esistenza di un legame con il disturbo neurologico dello sviluppo); l’esaltazione univoca dell’ABA [Analisi Comportamentale Applicata, N.d.R.], da più parti vista come “panacea” di tutte le manifestazioni connaturate all’autismo, “dimenticando” che la declinazione gravosa e gravosissima di quest’ultimo, tutt’altro che infrequente e irrilevante sul piano numerico, è ben altro rispetto a quella… alquanto rococò di cui si continua a leggere.

Questo modo di presentare e rappresentare il fenomeno autismo – abbinato al presenzialismo esasperato di personaggi che senza avere titolo e autorevolezza continuano ad imperversare sui media, spesso con la benevola complicità delle Associazioni – è troppo lontano da una visione culturale appena accettabile.
Lo affermo, mi si perdoni il termine, “laicamente”, da genitore di un figlio autistico che (cito per comodità, e me ne scuso, due esempi), non ha fatto ricorso alla comunicazione facilitata (costantemente oggetto di abiura e dileggio, a dispetto di quanto sostengono molti familiari che la considerano l’unico canale di comunicazione col mondo esterno dei loro figli, soprattutto se non verbali), ed è stato regolarmente vaccinato… Circostanze, entrambe, che non mi impediscono, a differenza di altri, di rispettare chi ha fatto scelte diverse dalle mie.
Non è un problema di onestà intellettuale, ma di messa (o non messa) in pratica di un principio di cui sono fermamente convinto: l’autismo non è un unicum e ciascuna Persona autistica è diversa, per caratteristiche e funzionamento, dall’altra. Come dire che ciò che non ha funzionato in un soggetto potrebbe funzionare bene, persino benissimo, in un altro (e viceversa).
Se non si comprende questo pensiero, continueremo a trovarci davanti a un’informazione in qualche modo “drogata”, in cui – si veda ciò che continua ad accadere con lo sterile deprimente spettacolo dei partiti “si vax/no vax” -, prevarranno a giorni alterni gruppi di pressione e di potere appartenenti all’una o all’altra formazione, in una sorta di derby mediocre e inconcludente, dove forse non vincerà nessuna delle due squadre, ma in compenso perderà sicuramente la ricerca della verità, che non può dipendere da prese di posizione estemporanee, ma dallo studio, dal lavoro e dal confronto civile di scienziati che si rispettano e si ascoltano l’un l’altro.

Come ha detto lo scienziato Stephen Hawking, «il più grande nemico della conoscenza non è l’ignoranza, è l’illusione della conoscenza». Bene farebbero a riflettere su queste parole i saccenti del web e della carta stampata convinti di essere “l’ombelico del mondo”. Da una parte loro, dall’altra il resto dell’universo. Da una parte le loro cosiddette certezze, dall’altra la scomunica, lo scherno e l’offesa verso chi e quanti hanno il torto di cercare di ragionare con la loro testa. Senza ripetere a memoria concetti ed espressioni trite e ritrite, ma assumendo come riferimento il lavoro oscuro e prezioso di tanti ricercatori e scienziati, che dimostrano giorno dopo giorno quanto le “mitiche certezze” di un tempo abbiano crepe profonde, sì da suggerire che altra possa essere la direzione, soprattutto medica e biomedica, verso cui concentrare gli sforzi alla ricerca delle cause dell’autismo.

Occorre a tutti i costi, insomma, capovolgere un’impostazione in cui tutto il bene sta pregiudizialmente da una parte e tutto il male dall’altra. Bisogna lavorare al servizio di un’informazione plurale, in modo che crescano la conoscenza e la partecipazione, e ciascuno possa liberamente formarsi un’idea. La “sua”, non quella preconfezionata strumentalmente e, perché no?, interessatamente, da altri.
Se non si compie questa operazione il pericolo è che si affermi e rafforzi una censura odiosa e strisciante che sfugge al confronto. Che discrimina. Che marginalizza. Che disaffeziona.

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